Il grande record di X, laureatosi solo a Y anni d’età
Y, studente record: avrà 6 lauree a X anni
X , lo studente dei record che prende quattro lauree insieme e tre borse di studio a Y
Record di lauree per giovane 25enne di X
Sei lauree, tutte con lode Ecco i record di Y
Anche sui giornali locali della nostra zona è arrivata l’onda lunga di una tendenza ormai generale, quella dello spazio sempre crescente dato ai casi di laureati prodigio, che hanno concluso il loro percorso di studi in anticipo e con risultati eccellenti. Il sottotesto che si vuole costruire è: “I giovani non si impegnano. Ecco perché non si laureano in tempo”. Un’idea profondamente sbagliata, che non cessa di condurre a gesti estremi (e a un malessere generale), di cui le cronache nazionali e locali ci informano periodicamente.
A chi non è capitato di notare pagine Instagram, video su TikTok, post su Facebook, siti ecc. di (pseudo)autoaiuto che propongono ricette semplici a problemi complessi (e profondi). “Passa 5 esami in un mese: si può!” ma anche “Basta solo organizzarsi per laurearsi in tempo: tutti possono farlo!”. Si parla tanto di empatia ultimamente, ma la si pratica molto poco. Che ne sappiamo di quella persona, che non riesce a passare quell’esame. I suoi problemi, il suo universo interiore. Che ne sappiamo di chi non ce la fa.
Ci vuole una sana competizione. Anche perché ormai si sa, i giovani: “Non vogliono né lavorare né studiare. Tanto c’è il reddito di cittadinanza…” (un aspetto di cui abbiamo parlato a fondo qui). Bisogna che si abituino alle asperità della vita, non devono essere protetti. La vita è una guerra di tutti contro tutti e bisogna imparare a sopravvivere da soli. Siamo imprenditori di noi stessi.
“La nostra società proclama costantemente che chiunque possa farcela a patto che si impegni duramente, il tutto mentre consolida i privilegi, e aumentando la pressione sui propri cittadini esausti. Un numero crescente non ce la fa e finisce per sentirsi in colpa, umiliato e mortificato. Ci hanno ripetuto fino allo sfinimento che non siamo mai stati così liberi di scegliere i nostri destini, ma la libertà di scelta al di fuori della narrativa del successo è limitata. E come se non bastasse, quelli che non ce la fanno, vengono automaticamente classificati come perdenti, scrocconi e parassiti sociali. La meritocrazia neoliberista ci vorrebbe far credere che il successo dipenda dal talento e dall’impegno dell’individuo, il che significa che la responsabilità grava esclusivamente sulle spalle del singolo e che le autorità dovrebbero quindi lasciare più libertà possibile per ottenere questo obiettivo”. Lo scriveva nel 2014 lo psicanalista Paul Verhaeghe su The Guardian.
I “record” tanto decantati dai media e presentati come frutto unicamente di duro lavoro, grande ambizione e un certo talento non sono altro che un’altra faccia della retorica del merito. I meritevoli da una parte e i fannulloni dall’altra. Ma “meritocrazia” non è che il termine coniato nel 1958 da Michael Young per descrivere, nel suo romanzo distopico, una società basata interamente sul merito, inteso come somma di talento e impegno, di quoziente intellettivo e sforzo, da dedicare totalmente al servizio delle “esigenze dell’efficienza”. I sostenitori della meritocrazia oggi dimenticano, però, semplicemente che anche la capacità di impegnarsi, oltre che il talento, è di solito, ereditata, è cioè, qualcosa di cui non si ha tecnicamente “merito”.
In definitiva, invece di esaltare le (pur meritevoli) eccellenze, non sarebbe il caso di recuperare il valore della solidarietà e chiedere allo Stato di dare realmente a tutti la possibilità di studiare proseguire nell’istruzione terziaria (d’eccellenza magari) a tutti, davvero a tutti?