Da Venezia, la vita in gabbia del boss più famoso d’Italia: “Iddu”

6.5K visualizzazioni
1 minuto di lettura

Liberamente tratto dalla raccolta epistolare Lettere a Svetonio (2008), e ancora più liberamente ispirato a una parte della vita del più grande latitante italiano dal dopoguerra, il capomafia Matteo Messina Denaro, Iddu prende in esame un preciso periodo, a metà degli anni 2000, in cui grazie a uno scambio di missive (o di pizzini usando il termine più adeguato) una task force di investigatori riuscì quasi a scoprire il nascondiglio del boss e a catturarlo. Una storia di mafiosi e di traditori che ha dell’assurdo, del meschino, del tragicomico.

Iddu è un film che ha come indiscutibile pregio principale quello di azzeccare il tono giusto: nessun pietismo, nessuna pesantezza, né tantomeno glorificazione del malefico. I registi imboccano la strada del grottesco: pur nella sua sottigliezza, il racconto sa essere all’occorrenza tetro e leggero, drammatico e ridicolo, un umore cangiante che riflette in pieno le vite dannate dei suoi protagonisti. Da una parte un boss potente, metodico e calcolatore, ma di fatto tristemente chiuso in gabbia, succube dei suoi fantasmi e delle sue manie (i suoi puzzle da risolvere); dall’altra Catello, il preside, il delatore, un personaggio di furbesco opportunismo e tenera stupidità, interpretato magistralmente da Toni Servillo, che sembra uscito direttamente da un film dei Coen.

Proprio alla coppia di fratelli-registi americani sembra ispirarsi il tono generale di questo film, a partire dalla scrittura dei dialoghi, ironici e dinamici, e l’ambientazione provinciale popolata da gelidi killer sanguinari, ma anche simpatici e ingenui fannulloni.

In mezzo a tutto questo la legge, sempre più confusa, che cerca di cavare qualche ragno dal buco.

Viene approfondito nel mentre il mito nero di uno dei boss mafiosi più famosi, e ormai a un anno dalla morte, iconici di sempre, con la sua routine, i suoi intrattenimenti culturali, i suoi fantasmi (i suoi occhiali), senza comunque condirlo di un briciolo di empatia.

Un film efficace su più livelli, che cerca anche di inserire interessanti chiavi di lettura politiche, riguardo alla collusione dei poteri, e all’ineluttabilità della ragion di stato. Chi è in gabbia ci rimane fino a quando è necessario, nel mentre i pesci piccoli muoiono. 

Non è un gangster, non è un film drammatico, non è una commedia nera: è probabilmente un film sulla desolante capacità degli uomini di scavarsi la fossa da soli. Amen.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Previous Story

Svegliare le coscienze progressiste: un reportage da “Polittica” a Bari

Ultime da