“Se sabìa, si sapeva”. La popolazione alluvionata di Valencia si sfoga così, di fronte al corteo di guardie del corpo e cronisti che attorniano i reali di Spagna, il primo ministro spagnolo e il presidente della generalitat. E poi ancora cori carichi di frustrazione e rabbia, urla (“asesinos, assassini”), lanci di fango, bastoni e badili. È domenica sera e sono ancora in viaggio verso casa mentre leggo “Domani” del giorno successivo e riprendo contatto con l’attualità. Vengo dalla tre giorni di Polittica, la “full immersion school” a Bari organizzata da Generazione Urbana e La Giusta Causa. E ripenso alla rabbia, che è stata una delle parole chiave di questa scuola di formazione politica che più mi interrogano.
POVERI DI LAVORO: PRECARIETÀ, REDDITO MINIMO E SALARIO MINIMO
“Perché non ci arrabbiamo?” si era chiesta Teresa Masciopinto e io ora penso ai terremotati del mio territorio, che a otto anni dal sisma non riescono a farsi sentire di fronte a una ricostruzione che fatica.
Masciopinto, presidente della Fondazione Finanza Etica e socia fondatrice di Banca Etica, ci aveva rivolto quella domanda dopo aver ricordato i dati tristemente noti sulle crescenti disuguaglianze. Poco prima Vito Peragine, ordinario di Economia Politica all’università di Bari, aveva richiamato l’ormai celebre affermazione del finanziere Warren Buffett sulla lotta di classe, che esiste ma è stata vinta da ultraricchi come lui. Difficile negarlo in un contesto in cui, solo per sintetizzare, grazie a un agile libretto che lo ricorda: “Siamo l’unica nazione in cui, dal 1990 al 2020, i salari si sono ristretti del 3 per cento invece di crescere, certifica l’Ocse. Com’è stato possibile? E com’è che questo sconcertante dato non è diventato il cavallo di battaglia di ogni forza progressista del Paese?” (l’autore è il giornalista Riccardo Staglianò e si intitola “Hanno vinto i ricchi. Cronache da una lotta di classe”).
Peragine si è concentrato, poi, su quanta disuguaglianza sia possibile accettare: il tipo peggiore, comunque, è quella che si eredita. E l’Italia è, non a caso, il Paese con la minore mobilità sociale. Inoltre, i dati sul nostro mercato del lavoro mostrano sempre meno assunzioni e meno dimissioni (verosimilmente per l’aumento dell’età pensionabile): una staticità che scoraggia chi cerca un impiego, che va ad aumentare le fila degli inattivi. Abbiamo molto più lavoro precario, sottolinea Peragine, ma le ore lavorate totali sono le stesse: il part-time involontario e la discontinuità dei contratti sono la causa dell’aumento dei lavoratori poveri.
Il punto, quindi, non è tanto l’assenza di un salario minimo orario, anche se interesserebbe ben oltre due milioni di persone, pagate attualmente al di sotto dei 9 euro l’ora, ricorda Roberto Voza, ordinario di diritto del lavoro a Bari. Il suo intervento è un interessante excursus storico-giuridico, dall’emendamento del 10 maggio 1947 in Costituente di Aladino Bibolotti e Renato Bitossi per introdurre il salario minimo fino alle più recenti pronunce della Cassazione che annullano contratti collettivi nazionali con salari troppo bassi sulla base dell’art. 36 della nostra Costituzione (sulla retribuzione del lavoratore “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”), passando per la direttiva europea che ci impone di contrastare il lavoro povero.
“Ho iniziato a interessarmi di ciò che poi ho capito essere ‘politica’ per rabbia”. Ritorna sul tema Federica Fabrizio – in arte @federippi – autrice, content creator e attivista per la parità di genere e giustizia sociale offline e online. E lo fa ampliando lo sguardo oltre la semplice rabbia economica e chiamando, invece, in causa la sfera del riconoscimento sociale, cioè il modo in cui ci si sente considerati dalla società. Mi ha ricordato il politologo Carlo Invernizzi-Accetti, con il suo “Vent’anni di rabbia: Come il risentimento ha preso il posto della politica”, che sottolinea poi come le minoranze etniche, le donne e i giovani soffrano, tra gli altri, di un senso di invisibilità e marginalizzazione. E lei, donna, bianca e giovane, nel lasciare il nido di Matera per l’università e poi il lavoro a Roma scopre, infatti, il peso della discriminazione. “Passerotto” l’apostrofa un paziente in ospedale, se va meglio è “signorina” o “Federica”, cosa che non accade mai ai suoi colleghi maschi.
“Cerco allora di affrontare la rabbia con i libri. Se ‘Il Secondo sesso’ di Simone De Beauvoir non l’ho mai terminato, è l’incontro con bell hooks a cambiarmi. Cerco il collettivo più vicino e inizio con Non una di meno. Era il 2020, dopo qualche incontro scoppia il Covid e allora mi sono spostata sui social, dove ho trovato il mondo della divulgazione. Insieme ai libri, questo mi ha permesso dare un ordine alla mia rabbia. E ci tengo a dire che la politica si fa anche sui social, che hanno la possibilità di raggiungere tanti e donare una consapevolezza che poi può farsi corpo. Infatti, dopo il Covid siamo tornati anche fisicamente nello spazio pubblico, con manifestazioni, scioperi”.
E, per tornare alla domanda iniziale, Gabriella Falcicchio, ricercatrice e docente del dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione dell’università di Bari, oltre che attivista del movimento nonviolento -fin da quando entrò in contatto con Aldo Capitini- ha sottolineato: “La rabbia è energia che può essere generativa, bisogna fare un gran lavoro per conservarla e incanalarla perché non diventi violenza fine a se stessa, ma ci attivi per un cambiamento profondo del mondo. Non credo che la Generazione Z non sia arrabbiata, che sia meno conflittuale, ma forse tutta questa energia è stata indirizzata verso l’autodistruzione?”. E qui mi sembrano riecheggiare le parole del filosofo Franco Palazzi, che -in “La politica della rabbia. Per una balistica filosofica”- critica la sterilizzazione del conflitto da parte della politica istituzionale (vedi QUI) e sostiene che ci vogliano le passioni, anche quelle che non godono di buona stampa: la rabbia è ciò che ha permesso di migliorare le condizioni della vita sociale umana.
Ciò che mi sembra sia mancato alle mobilitazioni degli ultimi anni sono il senso di un fine concreto e l’organizzazione capaci di trasformarle da reazioni emotive a progetti politici duraturi. La domanda di politica non manca, ma occorrono canali di partecipazione collettiva più adatti alle nostre esigenze. Occorre organizzarsi!
In questa ottica, dedicare il ponte della Commemorazione dei defunti per andare in Puglia (non a ballare) partendo dalle Marche, mi sembra il minimo. Anche se a molti può apparire strano, eppure l’attivismo politico dal basso è davvero appagante, ma richiede anche studio e impegno continui.
Ce lo ha ricordato anche Flavia Carlini, autrice, divulgatrice e attivista politica che apprezzo molto (e, cosa strana, anche i miei studenti liceali a cui spesso la consiglio). “Io odio essere chiamata influencer, il social per me è un mezzo e non il fine. Una parte fondamentale del mio lavoro è lì, ma l’altra parte avviene fisicamente” racconta con il suo modo di parlare rapido e appassionato. Una delle domande che le rivolgiamo porta anche a riflettere sulla libertà che attualmente esiste sulle piattaforme di Meta. Oggetto anche di un recente servizio di Report: oggi a causa dell’algoritmo vengono fatti sparire dal dibattito pubblico tutti i temi cosiddetti politici, con l’eccezione di contenuti razzisti o che incitano all’odio, perché questi -diversamente dagli altri- scatenano reazioni e ci fanno rimanere incollati allo schermo. È la dimostrazione che si può politica anche decidendo di nascondere la politica!
”I grandi cambiamenti sociali partono dal basso, dalle piazze. Non c’è qualche politico che all’improvviso si sveglia da solo e...”. Ma, non esiste mobilitazione, non c’è “collante -che ci mostra che il problema individuale è in realtà collettivo-” senza l’informazione: “Leggendo o vedendo in giro, sentivo qualche anno fa che mancava qualcosa: l’origine delle cose che succedevano. Si parla di una strage di migranti? Se ne descrive al massimo la brutalità, ma quali sono le cause? Chi sono i responsabili? Quando l’informazione funziona, porta a farsi domande, dà voglia di andare a cercare e approfondire”.
E, sfatando un mito, “non esiste l’oggettività, pensando ad oggi: come si fa ad essere equidistanti in un genocidio? Ben diverso è l’essere faziosi, occorre nutrire una coscienza critica che possa decostruire la ‘fabbrica del consenso’ che sono i media, per usare l’espressione di Chomsky”. Un’informazione che è fatta per i proprietari dei media (e per i loro interessi economici e politici) e per gli inserzionisti che pagano la pubblicità; una informazione che ti inonda di fatti per nascondere le analisi che contano, che usa paroloni per nascondere i contenuti; un mondo dell’informazione che, quando si prova a farla per davvero, si viene inondati di denunce per intimidire.
E poi, parallelamente all’informazione, c’è il problema dell’educazione: “Studiamo e ristudiamo l’Olocausto e poi non lo sappiamo riconoscere sotto i nostri occhi. La storia della seconda metà del Novecento è quasi assente a scuola: proprio là dove si potrebbe riconoscere che i diritti sono frutto delle lotte alimentate dalla rabbia delle classi subalterne”. E, da insegnante, non posso che concordare (per andare più in là, è utile rileggere il recente articolo di Alfio Mastropaolo sul Manifesto).
“I giovani sono arrabbiati, ma rispetto a prima del G8 di Genova (vera frattura nella storia della contestazione dell’ordine esistente), manca un sistema alternativo per cui combattere. Da qui bisogna ripartire”.
Uno che il sistema alternativo provò a crearlo fu Adriano Olivetti -industriale, uomo politico e intellettuale a me molto caro- e proprio lui considerò la città parte di un progetto, di una visione complessiva di società, che si trasforma in piano nel quale urbanistica e architettura non sono mai disgiunte. Un approccio utile e coinvolgente anche per rinnovare forme e ambienti urbani nelle quali viviamo, restituendo centralità a idee e progetti, creatività e solidarietà. L’urbanistica è eminentemente politica, è partecipazione dal basso. Lucia Abbinante, esperta di innovazione sociale, politiche giovanili e media education, già direttrice generale dell’Agenzia Nazionale per i Giovani, ci ha condotto insieme a Giulia Spadafina, dottoranda in urbanistica e consulente per la pianificazione urbanistica, in un Community Action Lab. L’obiettivo del workshop era esplorare la connessione emotiva e il rapporto della comunità con uno spazio locale problematico -come corso Italia e in generale il quartiere Libertà di Bari- e sviluppare proposte creative per il suo miglioramento. Osservazioni e interviste sul campo e riflessioni -prima personali e poi collettive- sono state seguite da una sessione di mash-up creativo e di presentazione dei nostri progetti volti a cambiare il volto di quello spazio urbano. Come? Welfare di comunità, verde, cultura, bellezza costruiti tramite l’ascolto e il coinvolgimento delle comunità: sempre e a ogni livello (compreso il follow-up successivo alla realizzazione dei progetti).
E un grosso cambiamento per le nostre città, rivoluzionario, sarebbe quello della mobilità, discusso con colui che Repubblica ha definito “il profeta della mobilità sostenibile a Bari”: Lello Sforza, cycling e mobility manager, autore di norme su questi temi a tutti i livelli. “Sono sempre stato un vero rompicoglioni su questi temi. L’Italia è il Paese più motorizzato d’Europa. La maggior parte degli spostamenti in auto degli italiani è inferiore ai cinque chilometri. Questo dovrebbe far capire su come sia antieconomico e antiecologico l’uso dell’auto in città. Un’auto che percorre solo due chilometri al giorno e sta ferma per 22 ore è solo un inutile ingombro. Puntare sulla condivisione dei mezzi di trasporto permetterebbe di soddisfare la propria domanda di mobilità senza dover possedere nulla. Se ci fossero servizi adeguati di car sharing come altrove, la gente userebbe l’auto solo quando necessario. Il problema, anche a Bari, è che non si è fatto nulla per spostare il traffico individuale motorizzato verso altre forme di mobilità. I monopattini, il bike sharing, che sono arrivati in tante città… tutte queste soluzioni sono state semplicemente aggiunte al traffico veicolare esistente. La vera sfida è sostituirlo e bisogna affrontare la questione con decisione. È necessario attuare un radicale mutamento nel mobility management, partendo da campagne di educazione nelle scuole e di marketing, per spiegare a tutti, a partire dai più piccoli, i vantaggi dell’andare in bicicletta e in generale sull’uso dei mazzi alternativi. Bisogna potenziare il trasporto pubblico rendendolo efficiente. Incentivare le aziende a incoraggiare i propri dipendenti a spostarsi altrimenti. Se continuiamo a essere sommersi da pubblicità di auto, di mega suv associati all’immagine di forza, virilità, autorealizzazione, nulla cambierà mai”.
Mi ha ricordato molto la riflessione del mio adorato Andrea Coccia su Slow News (oltre che sul suo libro): “Le città italiane sono letteralmente occupate dalle auto, che in molte delle grandi città parcheggiano selvaggiamente sui marciapiedi occupando contro ogni regola del codice della strada una enormità di spazio pubblico che in altre città europee sarebbe impensabile. […] Ecco che cos’è il Realismo automobilista. È il racconto del reale che l’auto porta con sé da decenni. È quella realtà che somiglia al mondo là fuori, ma che esiste solo nella nostra testa rendendoci schiavi. È un immaginario che è stato costruito abilmente e meticolosamente, utilizzando precise strategie narrative, comunicative, commerciali, ma anche politiche lungo l’arco di più di un secolo. È quell’insieme di sovrastrutture che ci ha talmente condizionato da farci accettare politiche urbanistiche e infrastrutturali criminali, ma che sono talmente efficaci da averci fatto dimenticare che l’auto esiste da pochi decenni e che siamo noi che serviamo a lei, e non il contrario”.
Sono le 21 di un sabato d’impegno che è iniziato esattamente 12 ore prima, ma Polittica non si ferma e ci porta a confrontarci col tema della migrazione e del carcere, e andiamo avanti fino quasi alla mezzanotte, con un evento aperto alla cittadinanza. Torna la rabbia, mista alla commozione.
Si commuove Nabil Bey Salameh, cantautore, etnomusicologo, fondatore dei Radiodervish, scrittore, giornalista e docente, nato a Tripoli del Libano da una famiglia di origine palestinese: “Riesco a dormire pochissimo. Ho il terrore di svegliarmi e sapere che altri sono morti. Già 26 membri della mia famiglia sono scomparsi. Nessuno aiuta i palestinesi, se non voi qui che mi ascoltate. Noi non ci rassegniamo, chi avrebbe accettato di perdere la propria terra pezzo pezzo ad opera di coloni? Nelle Tv italiane vedo tanta propaganda. Oggi c’è da agire ed il boicottaggio dei prodotti è molto utile. La questione palestinese è una bussola morale per l’umanità!”. Interviene portando la sua testimonianza un ragazzo palestinese rifugiatosi in Svezia per anni e recentemente espulso: oggi studia a Bari.
È arrabbiato, ma lascia il microfono con gli occhi lucidi, Abdelfetah Mohamed. Mediatore culturale di formazione e professione, attivista per i diritti dei migranti e per il soccorso in mare, ha lavorato per la Federazione Internazionale della Croce Rossa, Emergency, Oxfam e a bordo della Ocean Viking di SOS MEDITERRANEE. Nato negli anni ‘80 in un campo profughi in Sudan da una famiglia eritrea, vive e lavora da più di dieci anni in Italia. E non ha potuto che dedicare la sua vita a chi, come successe a lui, è costretto a rischiare la vita in mare. “Chi chiede perché dall’Africa si parta… non si rende conto. E poi, da eritreo, posso dire che sono stati tanti italiani a venire nella mia terra e lì davvero non con intenzioni pacifiche…”.
Luciana Delle Donne, con un passato da manager bancaria e oggi impegnata in strategie di inclusione sociale, con una particolare attenzione al mondo femminile, va oltre: “Piangerete tutti, perché quando vi renderete conto che non avevate capito niente della vita, come quando io lavoravo nella finanza…”. E lei ha pianto anche quando, fra mille ostacoli e difficoltà, è riuscita a creare nel 2007 ‘Made in carcere’, con la cooperativa sociale pugliese Officina Creativa da lei fondata. L’obiettivo era ed è offrire un’opportunità di formazione e di lavoro regolarmente pagato alle donne detenute, che così quando escono dal carcere non delinquono più. Il brand di borse, abiti e accessori, originali e colorati, prodotti ecosostenibili ricavati da tessuti di recupero. “Dare e darsi sono la nuova frontiera della ricchezza: questo è fare politica!”.
Ma per fare politica è anche volare alto, altissimo. Come facciamo con Carlo Galli, mio ex professore di Dottrine Politiche nel corso di laurea in Storia a Bologna, il più temuto e apprezzato. Dopo la fine della Guerra Fredda e il crollo del Muro di Berlino, il mondo è entrato in una configurazione di potere unipolare dominata dagli Stati Uniti, ha esordito. Dagli anni ’90 la geopolitica è stata sostituita da una logica geoeconomica, in cui il capitalismo era l’unico modo di produzione economica e gli Stati Uniti, come iperpotenza globale, incarnavano l’”impero”. Tuttavia, questa “unitarietà” non era un’”unicità”, costellata com’era di “linee di frattura mobili” che emersero sotto la superficie rendendosi visibili con l’emergere del terrorismo. Questo nuovo tipo di sfida ha portato a rispondere con “la guerra asimmetrica“, che secondo Galli caratterizza l’ordine instabile di quel periodo. Era un sistema senza vere contro-egemonie, mancava ormai un’alternativa di civiltà: non esisteva più l’opzione rappresentata dall’Unione Sovietica, con cui lo scontro non era stato semplicemente militare ma, appunto, a tutto campo. “Oggi, infatti, nessuno desidera essere ‘putiniano’ o ‘comunista cinese’” ha osserva.
Galli ha poi paragonato la globalizzazione a un diluvio che ha coperto le terre emerse. Ora, siamo in una fase di “deglobalizzazione: le acque si stanno ritirando, ma non del tutto“, lasciando vedere nuovi centri di potere come Cina e Russia, che in passato erano rimasti sommersi. La scena globale diventa quindi “pluralistica“, con il ritorno di una dimensione classica del politico, quella “spaziale“. I vecchi centri decisionali politici non sono stati infatti dissolti dal potere economico, mentre gli Stati Uniti restano prigionieri di un “universalismo pericoloso“. Questo, secondo Galli, si traduce in una “transizione egemonica“. “Lo capiranno gli Stati Uniti o sceglieranno di affrontarla con un’altra guerra per salvare il loro eterno dogma del controllo sui due oceani?” si chiede, sottolineando l’urgenza di un approccio realistico.
Giuseppe De Ruvo, laureato in geopolitica e dottorando di filosofia morale, collaboratore di Limes, ha offerto una prospettiva complementare: a suo avviso, gli Stati Uniti, convinti che il mondo sarebbe diventato una loro replica, hanno perso curiosità per le altre culture. Oggi ogni attore geopolitico costruisce la propria storia “in contraddizione col nemico“, generando nuove tensioni che riempiono il vuoto lasciato dalle ideologie passate. “Assistiamo al ritorno di passati mai stati presenti che ora vogliono attualizzarsi“. Ha citato come esempio la Russia, che giustifica la sua azione in Ucraina rifacendosi a motivazioni storiche, o la Polonia che richiama antiche configurazioni come la Confederazione Polacco-Lituana. In Medio Oriente, invece, le tensioni persistono, con la visione del sionismo religioso in Israele che si fonda sulla Bibbia e vuole riscrivere la storia, giustificando il possesso di un territorio che si estenda addirittura “dal Nilo all’Eufrate“.
Galli ha concordato, aggiungendo che la caratteristica di oggi è che le narrazioni legittimanti le proiezioni di potenza non sanno più convincere i fronte opposti. E ha poi concluso con una riflessione sul neoliberismo, che ha costruito scientemente l’individualismo di oggi, come un processo di distruzione delle strutture collettive che rende però l’individuo impotente perché isolato. Il neoliberismo vuole una società “anomica“, in cui il pensiero critico sia soffocato dall’idea del “nemico alle porte”: la reazione alla crisi neoliberale è, infatti, la guerra che neutralizza ogni dissenso. “Il neoliberismo ha prodotto degli ansiosi spaventati, ma il nemico non è fuori, il vero nemico è l’Occidente stesso”. Un paradigma economico che produce più disperazione che speranza. L’Occidente è debole non perché è aggredito, ma semmai è aggredito perché è in difficoltà.
Palando delle elezioni americane, “un commentatore ha scritto: speravo che le persone fossero migliori di così. No, le persone sono quello che sono, né migliori né peggiori, la politica è trovare canali per parlarci” ha ricordato di recente il giornalista di ‘Domani’ Ferdinando Cotugno. A Polittica ce l’ha raccontato in modo straordinario il linguista Michele A. Cortelazzo, accademico ordinario della Crusca e collaboratore dell’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.
Una foto di Aldo Moro in giacca e cravatta al mare; una foto di Silvio Berlusconi con la bandana in testa; una foto di Matteo Salvini che balla mezzo nudo al Papeete. Questa è l’icastica risposta. Il primo è il ‘paradigma della superiorità’, dell’io ti voto anche perché parli meglio di me, quindi mi affascini (1948-1992). Il linguaggio politico non poteva che riflettere questa superiorità, ma era arrivato all’esagerazione del ‘politichese’, un linguaggio astruso che mascherava la realtà e aumentava la distanza con gli elettori. Emerge in seguito il ‘paradigma del rispecchiamento’ (1994-2013), con la scelta linguistica del ‘gentese’, la lingua della ‘gente’. Oggi siamo, invece, nel ‘paradigma dell’iperrispecchiamento’ o ‘volgare eloquenza’. La data d’inizio del 2013 è legata alla legislatura con più nuovi eletti. L’idea è quella dell’io parlo peggio di te e ti insegno il peggio, cioè il linguaggio d’odio, ma anche le parolacce, che sono un tipo di linguaggio non analitico, inadatto al politico: questo è il ‘socialese’.
Questa evoluzione rispecchia l’evoluzione tecnologica. Mussolini ha la radio e quindi la sua capacità comunicativa ha senso nell’amplificazione della piazza e del mezzo radio; la Prima Repubblica nella tv in bianco e nero, registrata; la Seconda Repubblica nella tv a colori in diretta; la Terza Repubblica nei social, nel web.
Dalla paleotelevisione (‘54 e ‘76), che si esprime nella tribuna politica, una tv come scuola di lingua, alla neotelevisione (‘76-2000 circa, notando come la variazione televisiva ha anticipato la politica) con il talk show della tv a colori, in diretta e commerciale, in cui c’è il rispecchiamento del plurilinguismo italiano, in cui si sentono voci, accenti diversi. Infine, l’oggi con il doppio display, cioè la tv fruita con il telefonino in mano, la tv dell’intervista senza contraddittorio, dell’interazione tra tv e social: la tv come iperrispecchiamento del plurilinguismo.
C’è poi il discorso dei leader, in particolare nello scontro Schlein-Meloni, sulla base dei dati, dell’analisi dei testi, quantitativa e qualitativa. Ed emerge che Schlein parla semplice, eppure è percepita al contrario, anche se ha un certo difetto nella tendenza a non rispondere alle domande direttamente. Invece, la comunicazione di Meloni ha successo e, al contrario di Renzi che -anche lui molto bravo- lo fa d’istinto, lei studia. Anche se, probabilmente, secondo Cortelazzo, il suo segreto è la pronuncia: da una parte una Schlein linguisticamente apolide, dall’altra gli accenti che in Italia veicolano familiarità.
La strada per una politica buona che sappia parlare bene ai cittadini è “un linguaggio semplice ma mai semplicistico”.
Con Dino Amenduni, socio e comunicatore politico dell’agenzia Proforma, ci siamo occupati di come gestire la propria presenza in un dibattito pubblico. Da prima del dibattito, con la preparazione di schede per ogni interlocutore, (precedenti dichiarazioni, conflitti di interesse, alleati e oppositori), e poi l’analisi del format dell’evento (il moderatore, che ruolo abbia, il rapporto fra il numero di ospiti e il tempo a disposizione, la presenza di domande dal pubblico), e infine soprattutto definire gli obiettivi pragmaticamente (vuoi il titolo sui giornali? Ma quale? Vuoi rassicurare le istituzioni? Vuoi convincere il moderatore? Vuoi persuadere un interlocutore? Vuoi semplicemente il soundbite sui social?). Fondamentale la presentazione del concetto della finestra di Overton: qualsiasi idea, anche la più assurda e lontana dall’immaginario contemporaneo, può diventare universalmente accettata. Tutto sta nell’inserirla nel circuito dell’opinione pubblica seguendo facendole fare una serie di passaggi: da impensabile a radicale, da radicale ad accettabile, da accettabile a sensata, da sensata a diffusa, da diffusa a legalizzata. Dobbiamo sempre cercare di spostare la finestra di Overton, e “chi in Italia ci riuscisse con la patrimoniale, vince un premio”. Il linguista George Lakoff dice che esistono: i progressisti, i conservatori e i misti. Sei tu a dover attivare i misti, ma non spostandoti: devi spostare piuttosto la finestra di Overton.
Alcuni trucchi per farlo sono l’utilizzo di ricerche e studi, gli esempi da altri Paesi, l’avversione alla perdita, e poi, soprattutto, il framing. Lakoff chiama ‘frame’ l’organizzare i contenuti in modo che la fruizione sia adatta a chi li ascolta, cioè un sistema di idee che si veicola grazie a una base emotiva e cognitiva.
Attraverso un gran numero di estratti video, variegati nel tempo e nello spazio, abbiamo analizzato il framing. L’“Io sono Giorgia” è fare framing, ma questa modalità, insieme all’uso di sondaggi, allo storytelling, ecc. la sinistra l’ha a lungo evitata, perché ha ritenuto -illuministicamente- che bastasse la forza del contenuto: niente di più falso.
Il framing non si smentisce col fact checking, né col linguaggio con cui è stato, che piuttosto lo rinforza. L’unico modo per usare sempre lo stesso frame per criticarlo, cioè fare reframing, è l’ironia. Ma già il frame di partenza deve essere non troppo giusto, l’avversario non credibile, e si deve essere soprattutto rapidi nel fare questo reframing.
Piuttosto, ci vogliono proprio altri frame, altre parole.
Esistono degli schemi difensivi da framing, che si possono usare anche se sono comunque meno efficaci (lo sparring partner, lo stress test, il galoppo di Gish).
FANTAPOLITTICA (E TANTO ALTRO)
Il personaggio storico che vorresti conoscere? Il film che ti è piaciuto? La serie Tv? Il libro? Difficile per me fare classifiche, ma così abbiamo iniziato Polittica, per rompere il ghiaccio fra noi. Io ho scelto Federico Umberto D’Amato, per indagare sulla strategia della tensione. Una scelta che mi ha permesso di conoscere subito dopo un altro partecipante, che sta approfondendo per la sua tesi la questione dei servizi segreti. Perché Polittica è fare comunità. E si è cercato di farlo da subito, con attività laboratoriali a gruppi, dalla simulazione di speech finale di Trump e Harris alla caccia al tesoro sulle tracce dell’antifascismo barese, che è terminata con i panzerotti più buoni del mondo. Un modo interessante per fare squadra è stata la costruzione di un gioco, “Fantapolittica”, dove a tutta una serie di azioni venivano assegnati punti e penalizzazioni durante tutta la durata della tre giorni.
Da sottolineare la sovrarappresentazione di formazioni giuridiche fra i partecipanti, bisogna variare!
Fare domande, farsi domande, discuterne: questa la chiave di Polittica. E poi una cura del dettaglio, dall’offerta degli alloggi fino ai pasti. Sempre veg e inclusivi, con un gran finale di una realtà multiculturale: orecchiette fatte a mano da una donna originaria del Bangladesh e conditi con un sugo afghano e accompagnati da pane sempre afghano insieme a hummus palestinese.
Come in tutte le cose, a volte posso esserci delle leggere sbavature, da affrontare per la prossima edizione, che tutti aspettiamo con ansia! Quali? Mi viene da dire: tanti temi in poco tempo, forse troppi? (Io, comunque, mi candido alla prossima edizione per portare il tema Istruzione!). Alcuni laboratori erano forse fuori focus, così come alcuni panel o ospiti (comunque, pochissimi). E, poi, più tempo per le domande è proprio necessario.
Una cosa stonata la devo però sottolineare, ma solo perché è molto comune: l’uso del termine ‘transizione’ per la questione energetica. E lo spiego con una citazione da un’intervista a Jean Baptiste Fressot su Socialter (traduzione mia).
Il fatto che la transizione energetica sia diventata l’orizzonte della lotta contro il cambiamento climatico costituisce ai suoi occhi “uno scandalo scientifico e politico”. In che modo questo paradigma è completamente inadeguato?
In alcuni ambiti, la transizione è possibile. Per l’elettricità, che rappresenta il 40% delle emissioni mondiali, bisogna puntare sulle rinnovabili. Anche se non bisogna credere che sarà facile decarbonizzare la produzione elettrica su scala mondiale. Al contrario, immaginare di uscire completamente dai combustibili fossili in trent’anni è un’idea irrealistica. Ci sono molte tecnologie che non sappiamo come decarbonizzare. L’aviazione è la più nota, ma ce ne sono altre. Per il cemento sarà molto complicato, così come per l’acciaio, la plastica, i fertilizzanti… Dire “troveremo nuove tecnologie per tutti i settori e le diffonderemo a livello globale, anche nei paesi poveri, e tutto questo in trent’anni” non è realistico. Il problema è che mentre si fanno promesse di aerei a idrogeno e di un’economia decarbonizzata grazie a una terza rivoluzione industriale, non si parla di livello di produzione né tantomeno di distribuzione delle emissioni.
Uno degli effetti del discorso sulla transizione energetica è che non ci si pone le domande della sobrietà, della decrescita e della ripartizione.
È per questo che concludo dicendo che la transizione energetica è l’ideologia del capitale nel XXI secolo. Quando si parla di transizione, si parla di innovazione, di investimenti. In altre parole: è il capitale che ci salverà. Si vede bene il ruolo politico che gioca questa storia della transizione. Si evita di porre domande scomode, come quella della regolazione del consumo dei più ricchi…
Mentre partivamo per Bari, trovo una mail da Stefano Fassina, ex viceministro all’Economia, ex parlamentare PD e poi Sinistra italiana, ex economista all’Fmi e tanto altro. Oggi si dedica alla cultura politica con Patria e costituzione, promotrice ogni anno di una Scuola di formazione politica a Roma, a cui ho partecipato con interesse.
Ciao Giorgio,
come abbiamo proposto nell’assemblea conclusiva della nostra scuola, vorremmo cominciare a dare una mano per svolgere momenti di formazione politica nei territori. Ovviamente, senza calate dall’alto, ma con il protagonismo delle persone radicate nei luoghi. Chi è interessato può scrivere a questo indirizzo. Insieme, ce la possiamo fare.Il lavoro politico-culturale è sempre più importante. Per smontare le giustificazioni alla guerra permanente in Ucraina e al massacro del popolo palestinese, sostenute dall’Europa del warfare sulla base di una strumentale e opportunistica interpretazione del diritto internazionale. Per fermare l’attuazione separatista dell’autonomia differenziata. Per smascherare il segno di classe della terza legge di bilancio del Governo Meloni. Per riconquistare le periferie sociali dopo l’ennesima sconfitta in Liguria. […]
A presto!
Stefano
Ci proviamo a farla nel Piceno la nostra scuola di formazione politica?
Amici di Polittica, vi aspettiamo (in attesa di tornare da voi e, mi raccomando, aspettiamo Luciano Canfora e Caparezza per la prossima edizione!).
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