La grazia nascosta nelle cose: il mondo del fumetto di Gipi

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Io ho iniziato a disegnare perché in casa mia dovevamo fare silenzio. Avevo una mamma che spesso non stava benissimo di umore. E, quindi, a volte passava le giornate a letto con le finestre chiuse e tutta la casa doveva scendere in una pace forzata. I bambini sono molto belli quando fanno casino; io, invece, per essere un bravo bimbo dovevo essere il più invisibile possibile e, quindi, iniziai a passare le giornate disegnando. Ho pagine a fumetti, perché ci sono le vignette con una storia che si sviluppa, fatte a 5/6 anni” A parlare è Gipi — nome d’arte di Gian Alfonso Pacinotti —per la terza edizione di Linus – Festival del fumetto ad Ascoli Piceno, la manifestazione diretta da Elisabetta Sgarbi (di cui abbiamo parlato QUI, con Fumettibrutti). A dialogare con lui, sempre Sandro Veronesi, scrittore italiano tradotto in oltre trenta Paesi e due volte vincitore del Premio Strega, ora in libreria con “Settembre nero”.

Il fumetto mi ha salvato. “Questa è diventata la mia forma di stare al mondo. Quando sono cresciuto, sono diventato un’adolescente irrequieto, un delinquente, drogato che a vent’anni era in galera, che ha fatto tutti i casini più orribili, facendo soffrire i propri genitori in modo indicibile, ecc. Comunque, anche in quel periodo lì, una parte del mio cervello diceva, questa roba la devi raccontare. Avevo sempre questo, questa scissione di una personcina nella testa che, qualunque cosa stessi facendo, mi diceva: ‘Ricordati che poi la devi rifare’; è una specie di non vivere al 100% che, però, mi ha salvato il culo. Molti miei amici che, invece, quella roba la vivevano al 100%, proprio per questo, non ci sono più; io stavo un po’ vigliacchetto, sempre un po’ indietro e guardavo le cose. Il primo libro l’ho fatto a 37 anni, perché io non mi sentivo mai pronto”.

Scrivere per chi? Io non so ho un gran rispetto per il gesto di levarsi dei soldi e darli a qualcuno in cambio di una storia, che è quello che fa un lettore quando compra un tuo libro. Finché non mi sono sentito assolutamente pronto per prendermi la responsabilità, io non ho mai voluto far vedere niente a nessuno. Mi scoprì il direttore di Linus, Igort. Vivevo in una casa isolata, in un bosco, senza riscaldamento, quasi un barbone. E avevo un sacco di tavole fatte per me, storie che facevo per me perché non sapevo nemmeno che ci fossero dei libri a fumetti. Lui mi disse: ‘Fammi un libro’. E io gli dissi, ‘perché?’. Perché non capivo nemmeno cosa significasse. E me l’ha fatto fare a forza. Ho avuto degli apprezzamenti che mi hanno scioccato. Io avevo sempre e solo lavorato per i miei occhi. Non come adesso, che i giovani spesso mettono l’uscita prima della ricerca personale. A volte quando ho fatto lezioni o corsi, mi sono sentito dire da dei ventenni: ‘Come faccio a pubblicare?’. La questione è come fai a trovare la tua voce. La cosa, tra l’altro, più dolorosa per un giovane autore. Poi devi campare, quindi la pubblicazione è molto importante, però il problema è che se anche ci riesci, perché hai un grosso seguito social, poi non duri”.

I grandi maestri. “Io ho visto Andrea Pazienza che mi disegnava davanti. E tanti altri. Io li ho conosciuti i virtuosi, quelli bravi davvero. Io, invece, non ho mai avuto il dono del disegno.  La sensazione che avevo era di essere un insetto accanto a degli esseri umani. Con Pazienza, l’idea era che io non avrei mai potuto raggiungere nemmeno un minimo livello della sua capacità tecnica artistica, ma mi dissi: ‘Cazzo, però, posso vivere così!’. Posso fare la sua strada, quella di una persona che viveva raccontando, guardando il mondo e raccontandolo. Pure se venivo da Pisa, non conoscevo nessuno, non ero in nessun ambiente artistico, ero fuori da tutto, completamente, oltre che drogatissimo. E non sapevo proprio nulla del mondo”.

Disegnare con la parte destra. “Quindi, conosco il tormento dei giovani disegnatori, so quanto soffrano alla ricerca del loro stile: io ho sofferto quanto loro nella ricerca del mio, soprattutto perché avevo avuto contatti con quei grandi maestri e quelli si facevano vivi nel mio modo di disegnare, anche se in forma minore.
Il mio insegnante di disegno dal vero, al liceo a Lucca (all’epoca ero un punk, quindi avevo i capelli rasati con una cresta…), veniva accanto a me – mentre c’avevo la modella davanti – e mi diceva una cosa sola: ‘Sogna’. E, quindi, io sono cresciuto pensando che quello che dovevo fare era sognare. Invece, io ho imparato il contrario. Com’è che ho trovato lo stile? È una roba abbastanza magica.
A un certo punto vado a fare l’Accademia di Belle Arti a Firenze, avevo finito il liceo artistico col voto più basso di tutto l’istituto alla maturità. Andavo da Pisa a Firenze col treno e una mattina avevo una turista americana accanto a me che leggeva un libro. Mi addormentai e, quando mi risvegliai, la turista americana non c’era più, ma c’era il libro. Forse era andata in bagno. Senza esitazione me ne impossessai, ma era in inglese, lingua che ignoravo completamente. Stacco, ho 36 anni, dopo tantissimi traslochi in cui ho perso praticamente tutto quello che avevo. Un giorno nella libreria ritrovo il libro. Nel frattempo ho imparato un po’ l’inglese e iniziai a sfogliarlo. Si chiamava ‘Disegnare con la parte destra del cervello’. Iniziai a fare disegno dal vero per circa due anni, tutti i giorni, utilizzando quel metodo.
Quel metodo imponeva, ad esempio, davanti a un albero di eliminare ogni velleità artistica, ogni interpretazione, ogni desiderio di dire la propria. Annullarsi, diventare solo un paio di occhi dai quali entrava la luce con la forma che stavi guardando e riprodurla sulla carta, in modo meccanico. È molto difficile spegnere la parte sinistra perché è dominante. La prima volta che sono riuscito a fare un albero in quel modo lì e ho guardato la carta, il disegno era una cagata, ma l’albero era la cosa più bella che avessi mai visto: per la prima volta avevo visto un albero, cioè lo avevo visto togliendo la parola albero, togliendo tutte le sovrastrutture relative all’albero. Avevo visto solo le forme e rimasi scioccato dalla grazia che c’era, impazzii. Quasi un fastidio perché quella grazia mi suggeriva altre grazie che mi spaventavano. Allora dissi: ‘Facile, era un albero; se prendo un bel pacchetto di sigarette, un bel posacenere pieno di cicche e lo disegno… la bellezza non c’è. E invece quella grazia stava anche . Allora ho preso i miei amici, brutti come me. E cominciai a ritrarli. E quella grazia c’era anche in quelle forme lì. Allora andai dove ero cresciuto, a questi giardinetti dove avevamo fatto tutte le pazzie coi miei amici. E disegnai quelle cose dal vero e disegnai la Coop, disegnai campi dietro casa della mia mamma, con la ferrovia e i capannoni industriali. E c’era bellezza ovunque, ovunque. Mi ricordo per un periodo dissi: ‘OK, c’è Dio. E si manifesta, finalmente l’ho visto. Poi venendo da una famiglia di atei incalliti, questa roba non ha non ha retto.
Comunque, dal momento che nella realtà tutto aveva una grazia e una bellezza intrinsechi, potevo finalmente ambientare le storie di quando ero delinquente. Il problema mio era stato il crescere con i fumetti dei supereroi, ste robe dove non c’è realtà. Le persone sono sostanzialmente perfette, gli ambienti lucenti. Io dovevo raccontare invece degli adolescenti mediamente brutti, che si annoiavano su delle panchine passando le giornate a sputare per terra. E non c’era nulla di bello in questo. Invece con questa tecnica mi levavo di mezzo e cambiò tutto. E di botto mi ritrovai che avevo la possibilità di ambientare le mie storie nella realtà, che era quello che avevo sempre voluto fare. Poi, intendiamoci, non sono un francescano che lo fa sempre, ma è solo che facendo quella roba, le forme che vedi e che rifai ti sostituiscono le immagini stereotipate che hai in mente degli oggetti. E quindi quando vai a fare disegno di fantasia hai molta più possibilità di scelta tra le forme dei soggetti che vuoi fare. Io questa roba, fai conto, l’ho insegnata nei centri anziani, ai vecchi, gente che magari sai, diceva: ‘Eh, io disegnavo da giovane, poi ho dovuto smettere’. Mi mettevo lì e dicevo, vuoi vedere che in tre giorni vi mettete a fare ritratti l’un con l’altro? Mi sono ritrovato anche in galera, da insegnante, molto meglio di come c’ero stato la prima volta”.

Il successo. “Sono stato 42 anni in provincia, in mezzo ai miei amici, cioè persone che sostanzialmente sono quasi tutte disoccupate e devono andare a mangiare a casa delle zie. Cos’è successo poi? Un mio libro mi ha mi ha portato dei soldi e io sono andato a stare in Francia, avevo la fidanzata francese e stavo in un mondo comodissimo per un fumettista, perché là i fumetti sono considerati una cosa molto seria, molto importante, con un mercato molto florido. Hanno avuto autori incredibili. Se fosse stato il mio sogno, avrei potuto dire che avevo realizzato il mio sogno. E, però, mi accorsi che non lo era. Perché va così, finché sono sogni sembrano una figata totale poi, quando si concretizzano, cominci a dire: ‘Ok, era fatto di questa roba, c’era questa controindicazione, questo effetto collaterale’. E, quindi, mi ricordo un giorno a Parigi che avevo tutto, vendevo un sacco di copie, avevo questa fidanzata bellissima e una casa stupenda col pavimento di parquet, le finestre grandi che davano sul Parc de la Villette, le persone mi trattavano benissimo, pieno di ammiratori. E io volevo morire, pensavo solo a buttarmi sotto una di metro: qualcosa non tornava.
Anche in Italia, ebbi particolare risonanza per una mia intervista in TV da Daria Bignardi, la prima di un fumettista nel nostro Paese. ‘La mia vita nata male’ parlava di un periodo in cui non mi si era rizzato il cazzo: ero il primo uomo italiano a parlarne. Un’eco incredibile, mi chiamarono pure dal Maurizio Costanzo Show. Per fortuna, ebbi la lucidità di dire no, che ce vengo a fare io al Maurizio Costanzo show? Però in realtà la mia vita poteva prendere quella china, no, diventare un po’ questa creatura strana”.

Come una storia possa venire fuori da sé. “I miei libri sono andati sempre in direzioni diverse, il primo – ‘Esterno notte’ – è dipinto. Quel libro vinse un sacco di premi proprio per il disegno e il mio editore si aspettava che io facessi un altro libro con quello stile, migliorato naturalmente, perché uno migliora sempre nel disegnare. Io, invece, non riuscivo più a toccare un pennello con l’olio. Mi ricordo che un giorno dissi: ‘Ok, non ho mai usato l’acquerello in vita mia, fammi provare’. Presi un foglio, feci un disegnetto, lo colorai con un acquarello indaco, ci feci il tratto nero, poi dissi: ‘Ah bellino, ma come funziona sto pennarellino nero per fare le facce?’. E, quindi, feci un’altra vignetta accanto e ci feci una faccettina, poi i balloon e il lettering; un paesaggio con una voiceover. Insomma, andando avanti a esperimenti, arrivai in fondo con la prima pagina di appunti per una storia di guerra. È poi il libro che mi ha cambiato la vita a livello professionale. Ma io lo feci solo perché stavo provando una nuova tecnica. Ma evidentemente in me c’era l’idea che quel libro sarebbe stato fatto in quella forma. E io mi ricordo che andai avanti, feci 12 pagine. C’erano i personaggi, avevano i nomi, avevano i caratteri e io mi ricordo, mi fermai, dissi, ma voi chi cazzo siete? Da dove siete arrivati? Non avevo mai fatto una storia con quel taglio lì, il primo libro erano tutti racconti brevi, molto sognanti, era tutta roba di quando ero giovane coi miei amici, quindi flash di roba rimasta nella memoria. Questa era proprio una storia, che camminava con una struttura. Mi fermai, mi sembra per sei mesi, a chiedermi chi cazzo erano e poi mi misi a scrivere e scrissi tutta la storia e riattaccai. Finita quella potevo fare un’altra roba così, niente, non mi venivano più le trame articolate, quindi, feci ‘La mia vita disegnata male’ perché volevo fare un libro che facesse ridere. Sostanzialmente quello andò così bene che il mio editore mi diceva fai il seguito. Lui mi conosceva bene, diceva: ‘Gianni, te hai raccontato un decimo delle pazzie che hai fatto da giovane facci 10 volumi’. Sarei diventato ricco se l’avessi fatto. E non ci fu verso, mi fermai per 5 anni. Ora c’ho una storia a metà che non finirò mai perché non sono più buono. Questa è la condizione in cui mi trovo tutte le volte, con mia moglie poverina che si deve mettere lì e dire Gianni fai sempre così, ma io lo dico perché sono davvero convinto”.

Un uomo del secolo scorso. “Sono uomo del ‘900 infatti mi sento completamente fuori dal mondo. E il vero momento di cambiamento, quello che ha ucciso il ‘900, non è il 2000 ma il 2006/2007, cioè gli anni in cui sono arrivati prima gli smartphone e poi i social network. La vera mutazione, rapida e dolorosissima, io l’ho avvertita con il loro avvento, predominanza e supremazia. Ad esempio, io non riesco più a fare racconti in autobiografia, perché l’autobiografia è diventata, mi sembra, la lingua che parlano tutte le persone che hanno un account su un social network. E quindi mi viene sempre da chiedermi, perché qualcuno dovrebbe pagare per leggere una forma letteraria che in realtà trova gratis in quantità enormi e che probabilmente anche produce da solo?”.

L’animale che mi porto dentro. “Io ho sempre avuto la sensazione che quando le cose funzionano, era perché ero sparito ed era successo qualcosa, cioè mi s’era posata una bestia sulla spalla che mi diceva, levati di mezzo, io muovo la mano, io metto le parole, te devi solo stare al tavolino. Il tuo ruolo è quello: la volontà e dedizione. Io devo solo tenere cose sotto controllo e non abbandonarmi troppo alle velleità artistiche. Ci sono artisti che dicono: ‘Io mi scordo completamente dei lettori’, io mai. E questa è stata una cosa molto positiva in passato, perché li consideravo degli amici, ne ‘La mia vita disegnata male’ ho raccontato le cose più intime, perché io pensavo che i miei libri andassero in mano solo a persone che mi volevano bene. E adesso invece ho un ho un’opinione molto diversa del mondo che ho intorno, molto più ostile e quindi su quel lato lì sono completamente bloccato”.

Ogni storia nasce dal finale. Non sono un grande amante della trama e non sono probabilmente neanche un gran costruttore di trame, ma mi sono accorto a un certo punto che se lasciavo scorrere questa passione per il salto di palo in frasca, a volte si generava qualcosa di mediamente vitale. C’era una regola fondamentale, cioè che sapessi con assoluta certezza dove volessi arrivare. Un lavoro che a volte durava mesi, o anche anni in un caso. Capire il cuore della storia: due paroline, una se hai fortuna, cioè questa storia parla di amicizia. O di amore, di morte o entrambe. Allora sapevo che il finale sarebbe stato esattamente quella cosa lì, ma poi ci si poteva arrivare facendo qualunque percorso. Dipendeva soltanto dalla brillantezza che avevo in quel periodo, dalla volontà, da una serie di robe. Alla fine, ‘La mia vita è disegnata male’ è fatta così: io sapevo che l’ultima frase parlava della percezione che c’era amore dappertutto intorno a me e quindi potevo fare il cinico, raccontare della droga, delle robe più pazze, però io sapevo che tutta sta roba sarebbe stata una canzone che avrebbe avuto quella nota lì come ultima nota. Senza quella no, non riesco nemmeno a iniziare”.

Il senso della vita. “L‘idea di godere nel fare la cosa che fai, indipendentemente al risultato. Però, chiaro, se poi ci devi campare coi fumetti, bisogna mediare un pochino sta roba, non è che potevo... Ma come dire, il bello di fare un mestiere artistico, per come la vedo io, è proprio questo. Sprofondare lì dentro, godere come un maiale, se è possibile, nel disegnare, nello scrivere. E nel ritmo. Perché poi il fumetto non è la pittura, che è una cosa troppo grossa per me: non ho mai pensato di poter diventare un pittore. Però c’è il ritmo che è stupendo. Il fatto che te gestisci la velocità alla quale il lettore passa da un balloon all’altro, da una vignetta all’altra, o il percorso che fanno gli occhi sulla pagina, sono tutte robe molto molto interessanti da tenere. E quando il ritmo è buono, ad esempio c’è l’incastro paritario tra parole e immagini (non ho mai visto l’una o l’altra cosa come più importante dell’altra), godo proprio tanto. Quindi probabilmente è nel fatto di non fare mai carriera più di tanto, non diventare ricco e però godere molto, molto della cosa che il Signore Iddio, se c’è, t’ha regalato quando sei venuto su questa Terra. Fine. Vedi come m’ha fregato l‘albero”.

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