Tutte le foto sono di Andrea Vagnoni
“Io e te dovremmo fare un tour di presentazioni del libro insieme”. Sorride la giornalista Sara Lucaroni, mentre si versa un po’ d’acqua dopo oltre un’ora e mezza di chiacchierata. Nessuna domanda dal pubblico: “Siete stati così esaustivi!”, esclama una signora in seconda fila. Una trentina di persone, in un uggioso giovedì sera ad Ascoli Piceno, sono salite fino alla Piazzarola nella sempre viva sede del circolo Arci Caciara (che conoscemmo QUI). In un silenzio tombale, fino alla fine, hanno ascoltato con partecipazione la presentazione di “La luce di Singal. Viaggio nel genocidio degli Yazidi”: uno splendido reportage narrativo sull’esperienza dell’autrice. A parlarne con lei c’eravamo noi di Ithaca, in collaborazione con l’amico Daniele della Libreria Prosperi (che abbiamo intervistato QUI).
Il giornalismo. “In questo libro ho scritto di un’esperienza nata in un momento di grande incertezza professionale. Ero rimasta disoccupata, dopo una bella esperienza a TV2000. Ero giornalista professionista, dopo esser diventata pubblicista quando ancora non ero laureata. Un bel contratto, qualche risparmio ma ora non c’era più nulla. Con i soldi della disoccupazione scelgo di partire. Non mi sono arricchita, ma mi ha cambiato la vita. Prima umanamente che professionalmente. Dopo tanti anni da allora, freelance a L’Espresso, Avvenire, Domani, Speciale TG1, SkyTG24, Fuori Onda su La7 e M di Michele Santoro su Rai3… la precarietà l’ho interiorizzata. E ne cerco i lati positivi, ad esempio la completa libertà. Ma non ce lo possiamo nascondere, al gran bisogno di giornalismo corrisponde la più grande crisi dei giornali. Si fa fatica a pagare per un’informazione di qualità, dove dietro ci sono studio, approfondimento, deontologia, tempo. Si resta tutti intrappolati della nostra filter bubble online, circondati da contenuti ‘gratuiti’ che confermano le nostre opinioni (e pregiudizi). Fra giornalisti che si propongono come notizia essi stessi da novelli influencer social, editori impuri che hanno tutt’altro interesse che la libera informazione di qualità, politici e personaggi pubblici che vogliono disintermediare e si rivolgono direttamente al pubblico…”.
Il Medio Oriente. “Il mio interesse per l’area è nata quand’ero bambina: qual è stata la prima guerra che abbiamo vissuto in diretta? La Prima guerra del golfo, nel 1990, mi impressionò. A casa dei miei, nello studiolo, c’è una finestra che rimane sempre chiusa e su cui a lungo sarebbero rimasti attaccati fogli di appunti e la carta geografica dell’Iraq. Ricordo le luci delle bombe che brillavano nel cielo. Perché? Farsi domande è alla base della filosofia, che è la disciplina in cui sono laureata. Eppure, al liceo, prendevo 3. Non ero abituata a ripetere le cose a memoria e alla mia docente questo non piaceva. L’importanza del dubbio come strumento di comprensione e analisi critica è ciò che, del mio percorso nella filosofia, serbo con me. È questa capacità di dubitare che mi porto nel mio lavoro sul Medio Oriente: solo con occhio critico si può guardare la complessità delle sue dinamiche senza fermarsi a interpretazioni superficiali”.
Una telefonata del 2014. “Un numero che inizia col prefisso +964, l’Iraq. Non rispondo. Un’altra chiamata. ‘Pronto, chi è?’, le parole che arrivavano erano spezzate dal vento. Era il vento che quel giorno sferzava la montagna di Sinjar – Şingal, in curdo – sul confine siriano, nel nord del Kurdistan iracheno, assaltata dai miliziani dello Stato islamico. Centinaia di bambini fuggiti lassù da agosto avevano bisogno di vestiti più caldi e di cibo. E chi li difendeva, con mezzi del tutto inadatti, era protagonista di una piccola eroica resistenza. Ghazi Murad Barakat, un ragazzo della mia età tornato a casa dall’Europa, stava combattendo insieme alla sua famiglia e alla gente del suo villaggio. Aiutaci. E io ho fatto quello che potevo fare, raccontare. E sono partita”.
Il sedicente Stato islamico. “L’Isis è nato come costola di al-Qaida, poi rinnegata per la sua follia persino da questa. L’idea era di riportare in vita la comunità musulmana originale. Attraverso campagne militari violente e spietate, l’Isis ha affermato di voler costruire un califfato sul modello delle prime conquiste islamiche, seguendo una rigida interpretazione del Corano che richiede totale obbedienza e intolleranza verso le altre religioni. Nel perseguire il proprio progetto, il gruppo ha messo in atto una propaganda mondiale, illudendo i propri seguaci di un ritorno a un Islam puro e unitario, ma in realtà distorcendo profondamente una storia che è stata intrisa di apertura e compromesso. Nel contesto della Siria, dilaniata da una guerra civile feroce e complessa scoppiata nel 2011 al momento delle cosiddette Primavere arabe, lo Stato islamico ha trovato terreno fertile per espandersi sfruttando il vuoto di potere e l’odio per il regime oppressivo di Bashar al-Assad, noto per il controllo ferreo e la brutale repressione del dissenso. Ancora oggi la Siria, che ho visitato più volte, è un campo di macerie, fatta eccezione per una parte di Damasco e di Aleppo (le zone lealiste), altro che un luogo di vacanza come una certa propaganda tenta di far credere”.
Il genocidio degli yazidi. “Gli yazidi, una minoranza antichissima di lingua curda e con un credo religioso che mescola le tradizioni millenarie della pianura mesopotamica, hanno pagato un prezzo altissimo per la loro fede. Iblis, Satana, Lucifero delle religioni abramitiche non corrisponde ad Azazîl/Tawûsî Melek degli yazidi. Quest’ultimo non rifiuta l’ordine di Dio per orgoglio, non è il ribelle tentatore, non è l’angelo caduto che invidia Dio e l’uomo, non governa il male. Gli yazidi non hanno un ‘diavolo’. La convinzione secondo cui invece l’angelo pavone coincide con Satana o Lucifero è esattamente ciò che nei secoli ha condannato gli yazidi come ‘adoratori del diavolo’. Da ultimo con il Daesh, in quello che, poi, è stato riconosciuto come un genocidio: le donne e le ragazze ridotte in schiavitù sessuale, gli uomini massacrati o, se abbastanza giovani, avviati a essere nuovi jihadisti dimentichi delle loro origini. Bisognava eliminare qualunque traccia di un passato diverso da quello immaginato dal califfato. Ma degli yazidi non si parlava allora e si sarebbe parlato sempre troppo poco. Sono stata con loro una ventina di giorni, a dieci anni lo racconto: facciamo uscire dal cono d’ombra una delle tante cose che facciamo fatica a vedere quando non ci toccano da vicino”.
Come si racconta un dramma? “Diceva Kapuściński, uno dei più grandi reporter del Novecento ‘La nostra professione non può essere esercitata al meglio da nessuno che sia cinico’ e mi ritrovo completamente nelle sue parole: ‘Non c’è giornalismo possibile fuori dalla relazione con gli altri esseri umani. La relazione con gli altri è l’elemento imprescindibile del nostro lavoro. […] Credo che per fare del giornalismo si debba essere innanzi tutto degli uomini buoni, o delle donne buone: dei buoni esseri umani. […] Se si è una buona persona si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro difficoltà, le loro tragedie. […] Attraverso l’empatia si può capire il carattere del proprio interlocutore e condividere in maniera naturale e sincera il destino e i problemi degli altri. In questo senso, il solo modo per fare bene il nostro lavoro è scomparire, dimenticarci della nostra esistenza’”.
Le mogli di Daesh. “Ci sono articoli che documentano studi statistici di Human Rights Watch secondo i quali oltre l’85% delle donne yazide sarebbero state intervistate non seguendo pratiche giornalistiche etiche. Alla ricerca del sensazionalismo, alla ricerca del dettaglio morboso. In un contesto in cui, chi torna dalla prigionia, va a vivere in una tenda da sfollato magari senza nessun sopravvissuto della famiglia. Si iniziano a contare diversi suicidi sia tra i giovani che tra le ragazze che tornano dalla schiavitù. Non stupisce, dopo anni di abusi, di violenze di ogni tipo. Una volta, in una stanza con madre e figlia liberate… siamo rimaste in silenzio un’ora: quanto mi ha insegnato quel silenzio. Contemporaneamente, ho incontrato grandissima forza. Nel libro racconto alcune storie. Figure femminili resistenti, sia fra chi era stato catturato sia fra chi combatteva da fuori per la liberazione (donne che si arruolavano come difesa estrema del proprio corpo). Cito il nome di Nadia Murad, che ho avuto il privilegio di intervistare più volte: rapita dal villaggio di Kocho dopo aver perso la madre e sei fratelli. Venduta come schiava insieme alle sorelle, è riuscita a fuggire e, giunta in Germania nel 2015 grazie a un programma umanitario, ha iniziato a testimoniare la tragedia delle donne yazide; nel 2018, le è stato conferito il Nobel per la Pace”.
I rischi del mestiere. “Quando a Erbil sono risalita sull’aereo… sono scoppiata a piangere. Sì, il rischio c’era e tanto, soprattutto in alcuni momenti. Ma mi sono sentita al sicuro quando ero lì. Ero costantemente scortata, la notte dormivamo in case sicure, tutto era preparato. Nessuna mia foto era stata scattata (e a loro piace molto fotografare, sono spessissiomo in videochiamate ad esempio), era un periodo in cui ai giornalisti il Daesh tagliavale le gole. Solo l’ultimo giorno me le sono concessa agli scatti. Inoltre, quando è stato necessario, sono stata fatta passare per la figlia di personaggi locali e non come giornalista”.
La situazione oggi. “Lo Stato islamico non ha più un territorio, ma il gruppo resta attivo in vari paesi, in clandestinità. il primo genocidio del XXI secolo è quello yazida, dopo persecuzioni iniziate a varie ondate fin dall’Impero Ottomano. Oltre 3.000 uomini, donne, bambini e bambine furono uccisi, e almeno 6.800 persone, rapiti. Nonostante la sconfitta dello Stato islamico, si stima che ne manchino all’appello la metà. Un certo numero sarebbe nel sistema di detenzione istituito nel nord-est della Siria, col sostegno degli Usa, per imprigionare i sospetti affiliati all’Isis, che nessun Paese vuole riprendersi. Centinaia di donne, bambine e bambini ormai grandi vi restano intrappolati, sottoposti a vessazioni, schiavitù e altre forme di violenza da parte di affiliati allo Stato islamico. Diversi yazidi che hanno dichiarato la loro identità sono stati liberati e rimpatriati in Iraq. Molti non lo hanno fatto e restano reclusi: c’è chi teme che, al ritorno, sarà ucciso da parenti di persone affiliate allo Stato islamico; ad altri è stato detto che saranno le loro famiglie a punirle (anche se la comunità ne ha approvato la loro completa riammissione, ma resta aperta la questione dei figli nati dalle violenze, che le madri non vogliono perdere ma che la comunità non accetta: yazidi sono i nati da entrambi i genitori yazidi), altri temono l’isolamento; altri ancora sono stati rapiti quando erano così piccoli da non ricordare più la loro origine”.
Le persone sciamano verso il banchetto con i libri e si mettono in fila per il firmacopie. Molti vogliono ringraziare e scambiare due parole con Sara. Io, spero dentro di me di aver rispettato il mio proposito iniziale: “Prometto che cercherò di non parlare troppo dei contenuti del libro, merita di essere letto (ripensando all’insegnamento di Antonio Padellaro di cui abbiamo parlato QUI)” Il ruolo del giornalismo, la carriera giornalistica oggi, l’etica del mestiere… gli yazidi con la loro affascinante religione e tanto altro. La prima domanda è stata però sul libro precedente: “Sempre lui”, una riflessione supportata dal confronto con personalità della cultura di destra e di sinistra per capire: “Perché, a settantanove anni dalla morte, Mussolini non muore?”.
Le chiedo: “Ce lo tornerai a spiegare ad Ascoli, Sara?”. Risposta: “Ma certo, Ascoli poi è una città bellissima. Mi piacerebbe dare anche una visibilità giornalistica ai suoi problemi. Quindi, ci sto, organizziamo la presentazione del libro. Di più, proviamo a farne un grande evento di dibattito per la città!”.
E voi, ci aiutate?