****
Ci troviamo in un luogo e un tempo indefiniti. Potremmo cavarcela così: Isole britanniche, tra la fine del medioevo e inizio dell’età moderna (XV Secolo? Prendiamolo per buono).
Un piccolo villaggio di contadini, legato da decenni (o forse secoli) a una ritualità ciclica della vita in comunità, scandita da celebrazioni, lavoro, raccolto (harvest) e convivialità, inizia lentamente, inesorabilmente e subdolamente a vedere funestato il suo equilibrio. All’inizio arriva in paese un cartografo venuto da lontano, cortese, professionale, accolto da una docile ospitalità; poi sarà il turno di un manipolo di misteriosi forestieri, prontamente assicurati alla giustizia. In brevissimo tempo una serie di prima piccoli, poi lentamente sempre più macroscopici, cambiamenti porteranno a un inevitabile rovesciamento dell’ordine costituito.
Difficile parlare con lucidità di una pellicola (stavolta niente eufemismi, nessuna traccia di digitale) così complessa, viscerale, pluristratificata.
Harvest è un film che riesce a parlare con estrema chiarezza e grande potenza metaforica, di un tema enorme, con la disinvoltura di chi, senza fartene accorgere, potrebbe averne affrontati mille altri, incastrati uno dentro l’altro come in una matrioska.
Proviamo a enuclearne alcuni: amara riflessione sull’ inevitabile intercedere della storia, mitologico racconto sulla nascita del progresso, distruzione delle comunità arcaiche e nascita di quelle complesse, il tutto raccontato da un punto di vista profondamente lirico, poetico, politico. La regia e la messa in scena, chirurgicamente perfette, intime e allo stesso tempo ariose, spaziano tra sterminati luminosi paesaggi e minuscole, tetre stanze buie, in una continua dialettica tra il dentro (la sicurezza, il conforto, il conosciuto) e il fuori (l’avventura, ma anche il mistero, il minaccioso) senza mai riuscire a capire dove si annidino veramente i demoni, dove sia il marcio che incancrenisce la società.
La vera domanda che si fa allo spettatore è: la rovina dell’ordine costituito, la radice del cambiamento, è endogena o esogena? Viene dalle minacce del mondo esterno o dalle viscere, dalla pancia della società stessa? Non sono forse domande ancora, sempre attuali?
Tutti i personaggi, dilaniati da questo dubbio, sono volenti o nolenti vittime di un destino più grande di loro, e anche il silvano, quasi etereo protagonista Walter, per quanto provi a evitare lo sfacelo, non può infine che comportarsi come un novello Caronte e traghettare, accompagnare il villaggio verso un futuro che gli è sconosciuto. Che sia un inferno, o forse un nuovo paradiso.
M – IL FIGLIO DEL SECOLO (Joe Wright) ***1/2 Ci sono poche presentazioni da fare:…
“Alzi la mano chi pensa di saper disegnare. Ecco, sempre pochissime mani ogni volta. Tutti…
Iniziamo un breve viaggio di qualche puntata con un nostro corrispondente, che sbarca di nuovo…
“Non si deve deconcentrare, sta facendo un'intervista” scherza una cliente abituale, rivolgendosi ironicamente a Mimmo…
“VOCEEE!”. Un urlo squarcia il silenzio del teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno. Qualcuno non…
“E chi se lo aspettava il successo di Domino e sono già tre anni dalla…