HARVEST (Athina Rachil Tsaggari):
****
Ci troviamo in un luogo e un tempo indefiniti. Potremmo cavarcela così: Isole britanniche, tra la fine del medioevo e inizio dell’età moderna (XV Secolo? Prendiamolo per buono).
Un piccolo villaggio di contadini, legato da decenni (o forse secoli) a una ritualità ciclica della vita in comunità, scandita da celebrazioni, lavoro, raccolto (harvest) e convivialità, inizia lentamente, inesorabilmente e subdolamente a vedere funestato il suo equilibrio. All’inizio arriva in paese un cartografo venuto da lontano, cortese, professionale, accolto da una docile ospitalità; poi sarà il turno di un manipolo di misteriosi forestieri, prontamente assicurati alla giustizia. In brevissimo tempo una serie di prima piccoli, poi lentamente sempre più macroscopici, cambiamenti porteranno a un inevitabile rovesciamento dell’ordine costituito.
Difficile parlare con lucidità di una pellicola (stavolta niente eufemismi, nessuna traccia di digitale) così complessa, viscerale, pluristratificata.
Harvest è un film che riesce a parlare con estrema chiarezza e grande potenza metaforica, di un tema enorme, con la disinvoltura di chi, senza fartene accorgere, potrebbe averne affrontati mille altri, incastrati uno dentro l’altro come in una matrioska.
Proviamo a enuclearne alcuni: amara riflessione sull’ inevitabile intercedere della storia, mitologico racconto sulla nascita del progresso, distruzione delle comunità arcaiche e nascita di quelle complesse, il tutto raccontato da un punto di vista profondamente lirico, poetico, politico. La regia e la messa in scena, chirurgicamente perfette, intime e allo stesso tempo ariose, spaziano tra sterminati luminosi paesaggi e minuscole, tetre stanze buie, in una continua dialettica tra il dentro (la sicurezza, il conforto, il conosciuto) e il fuori (l’avventura, ma anche il mistero, il minaccioso) senza mai riuscire a capire dove si annidino veramente i demoni, dove sia il marcio che incancrenisce la società.
La vera domanda che si fa allo spettatore è: la rovina dell’ordine costituito, la radice del cambiamento, è endogena o esogena? Viene dalle minacce del mondo esterno o dalle viscere, dalla pancia della società stessa? Non sono forse domande ancora, sempre attuali?
Tutti i personaggi, dilaniati da questo dubbio, sono volenti o nolenti vittime di un destino più grande di loro, e anche il silvano, quasi etereo protagonista Walter, per quanto provi a evitare lo sfacelo, non può infine che comportarsi come un novello Caronte e traghettare, accompagnare il villaggio verso un futuro che gli è sconosciuto. Che sia un inferno, o forse un nuovo paradiso.