Culture

Ascoli, Alessandro D’Avenia racconta un’Odissea a teatro

VOCEEE!”. Un urlo squarcia il silenzio del teatro Ventidio Basso di Ascoli Piceno. Qualcuno non ha, forse, seguito fino in fondo il discorso di Alessandro D’Avenia e non ha colto che la sua voce è più bassa perché quasi rotta dall’emozione. Ma, per fortuna, tutto il resto del teatro non si è perso fino a quel momento – e nonostante l’ora tarda – nemmeno una sillaba del suo intervento. E la commozione, in quel momento, è corale. Il noto scrittore e docente era presente per l’Asculum festival, dove ha presentato il suo ultimo libro, “Resisti, cuore. L’Odissea e l’arte di essere mortali”.

Accolto da un’ovazione e presentato con parole di grande elogio, l’autore si è subito schernito: “Una mia studentessa mi ha detto una volta che ‘La prossima volta che sento come la descrivono, intervengo e dico tutta la verità’”. E poi ha continuato raccontando di una pizza con un suo amico astrofisico, che l’ha affascinato parlando dell’origine dell’universo: “14 miliardi di anni per mangiare una pizza con un mio amico, 14 miliardi di anni per essere qui con voi, a dare un senso a tutto questo”.

Leopardi e la vita. “A partire dal 1817 Leopardi stabilì una stretta confidenza con un grande letterato piacentino, Pietro Giordani. In una lettera gli scrive di voler vivere la vita poeticamente. Il verbo greco da cui deriva, ποιέω, indica un fare che trasforma il mondo e trasforma al contempo chi lo fa. Non ci si può accontentare di una vita in prosa. Come scrisse nella Ginestra, fiorire si può e si deve, anche in mezzo al deserto, perché se le cose fragili come un fiore di ginestra lo sanno fare, anche noi possiamo, ognuno a suo modo. Giordani, ben più grande, gli rispose che ci vuole esperienza e che prima doveva allenarsi una ventina d’anni nella prosa e solo poi dedicarsi alla poesia. Leopardi morì vent’anni dopo. Leopardi rispose che sarebbe stato un peccato non cominciare subito. E di lì a poco scrisse L’infinito. I maestri vanno, sì, ascoltati ma anche sfidati. E vorrei far notare che un grande intellettuale trovava il tempo per rispondere a un giovane…”.

Un’Odissea. Se davvero possiamo definire la vita così, allora siamo tutti un po’ Ulisse, ognuno con una rotta da tracciare. E non importa quanti ostacoli incontreremo: ciò che conta è il modo in cui affronteremo il nostro viaggio, accogliendo l’arte di essere ‘i mortali’ (così ci chiama Omero) come un dono e non come una condanna. Leggere i 24 canti dell’Odissea, uno alla settimana – soltanto dodici ore in totale – insieme agli studenti, non è solo un esercizio accademico. È un modo per riappropriarci del tempo, per essere qui, ora. Un modo per ‘ulissizzarci’, per crescere, se solo esistesse questo verbo. E non è un caso che il poema inizi con l’invocazione alla Musa, figlia di Zeus e Mnemosine, dea della memoria (fondamentale in una società dell’oralità). È come dire: rivolgiamoci alla bellezza. Cosa ho fatto ieri di bello? Questo dovremmo chiederci se vogliamo essere vivi. Se ieri non è memorabile, è come se fosse già morte. Ci sono troppo poche Muse nella nostra vita quotidiana. La rotta migliore per ritrovarci è quella che trasforma il mare che ci separa in un ponte: pontos, come lo chiamavano i greci quando volevano indicarlo proprio come l’insieme di vie invisibili che collegano terre e isole più o meno lontane, rendendole tutte un arcipelago.

La scuola. Per Socrate, era ‘tempo libero’ (questo è il significato della parola greca scholè), ovvero non solo il tempo dedicato alle necessità primarie dell’essere vivente, ma il momento in cui si è davvero vivi. È il tempo in cui ci si dedica a ciò che lui definiva ‘cose degne d’amore’ – il vero, il bello, il giusto – quelle che danno valore e significato alla vita. “Cinque ore, nel tempo libero, per concentrarsi su ciò che non muore. Anche se la nostra scuola oggi si è persa fra crediti, debiti, rendimenti… un vocabolario prestazionale. È diventata troppo un mondo che si interessa di te solo quando sei assente: cosa sarebbe invece una scuola in cui si dovesse giustificare ogni giorno la propria presenza?”.

Il senso della letteratura. “I classici sono sopravvissuti alla prova del tempo e ci insegnano. La scuola deve allenare a entrare in una storia viva, che è quella di questi autori. Serve ad allenare. La cultura etimologicamente è cura. Mentre questa è un’epoca in cui manca la consegna: amiamo la giovinezza ma detestiamo i giovani. Mentre voi siete ora qui per sentir parlare di Odissea. Un’opera classica perché sta con noi sempre. Ma letteratura vuol dire anche rilassarsi. Perché abbassi le difese, ci spoglia delle rappresentazioni che abbiamo. E allora non resta che… o addormentarsi oppure andare in bagno, come mi chiedono i miei studenti ogni volta che mi sembra di star conducendo una lezione particolarmente ispirata! Oggi non si legge più prima di addormentarsi, anzi ci si tiene svegli con l’uso continuativo dello smartphone: un adesso permanente”.

Il pianto. “Tutto ha inizio nel libro V, quando Calipso offre a Ulisse la possibilità di restare con lei sull’isola di Ogigia e ottenere l’immortalità. In fondo, non è forse ciò che tutti desideriamo? Vivere in un luogo paradisiaco, eternamente giovani, amati senza condizioni. Eppure, Ulisse compie una scelta apparentemente assurda, ed è proprio questa a renderlo eroico (peraltro, un eroe che piange. E un eroe che prima di partire per la guerra di Troia aveva provato a fingersi pazzo per non lasciarsi trascinare in una guerra senza senso). Decide di tornare a Itaca da Penelope. Nonostante sua moglie, destinata a invecchiare e morire, sia meno attraente della ninfa immortale, e Itaca sia ben lontana dalla bellezza di quell’isola paradisiaca, Ulisse sceglie Penelope. Sceglie di abbracciare il suo destino mortale. L’uomo che non muore è quello che sceglie per che cosa morire”.

La zattera. “La costruisce e porta lui e i compagni ad affrontare le varie illusioni di destino che si presentano loro (dai ciclopi che vogliono distruggerli alle sirene che irretiscono). A metà del libro l’indovino Tiresia racconta già come tutto si concluderà (ecco che il vero essere attuale è l’essere diverso da come la nostra società malata di novità la racconterebbe oggi). Sua madre nell’aldilà, in un toccante incontro, gli dice però di tornare quanto prima alla luce. Raccontando poi tutto alla sua sposa. Cos’è allora vivere? La speranza di venire alla luce del tutto e darne (rac)conto al mondo. ‘Alètheia’, tradotto con verità come disvelamento, è quindi vita che viene alla luce perché sottratta all’oscurità della dimenticanza, della menzogna, della morte”.

Il ritorno come riconoscimento. “Quando si parla di Ulisse, si pensa spesso alla ‘nostalgia’. Tuttavia, questo è un concetto molto più moderno, come lo è la stessa parola. Il nostos (che deriva da un verbo che nella forma attiva significa ‘salvare’ e nella forma medio-passiva ‘tornare’) nell’Odissea non implica il desiderio di tornare a ciò che era. Si tratta piuttosto di creare un mondo nuovo, una nuova dimensione dell’esistenza. E questo avviene in cinque incontri (il cane Argo, il figlio Telemaco, la sua nutrice, il padre Laerte e infine Penelope) che sono un progressivo riconoscimento: si esiste solo in relazione. Dobbiamo abitare la nostra vita e trovare il nostro destino. Oggi, perennemente distratti, l’Odissea ci ricorda che il vero viaggio è quello verso noi stessi. La conclusione è un fare l’amore con Penelope nelle parole e poi nei corpi, in quel letto che ha permesso a lei, con più scaltrezza del suo sposo, di capire indubitabilmente chi fosse in realtà. E Atena ferma il carro del sole per dar loro tutto il tempo”.

Ma da collega docente, vorrei concludere con una sua citazione nel corso di questa divertente, a tratti commovente, a volte sfidante cavalcata: “Che bello sarebbe morire in classe mentre spiego Dante”. E come D’Avenia ha ripetuto per tutto il tempo durante il suo incontro: comprate il libro! Peccato soltanto che non sia stato possibile ottenere una dedica su quel “Bianca come il latte, rossa come il sangue” che tanti anni fa mi aveva fatto scoprire l’autore (e sognare ancora di più l’insegnamento). Per alcuni è a volte banale, a volte melenso, a volte troppo positivo-motivazionale. Ma magari ad averne di altri D’Avenia nelle nostre scuole!

Giorgio Tabani

Racconto storie.

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