Culture

FəmFest, vi racconto la mia esperienza allo splendido festival transfemminista

Chi dalle Marche?”. Meno della metà delle braccia si levano in aria. Siamo nel centro storico di Monte Urano (FM) in una domenica sera estiva. Si suda anche a stare seduti nella ribattezzata ‘piazza Bisan Owda’, la giovanissima filmaker palestinese nota per documentare la sua vita sotto le bombe. Eppure, nonostante un intenso pomeriggio fra laboratori, incontri, dibattiti e presentazioni, circa duecento persone hanno pagato il loro ingresso per partecipare alla due giorni del FəmFest, il primo festival transfemminista intersezionale delle Marche (e non solo). Un pubblico attento e partecipe, con persone provenienti dal sud come dal nord Italia, molto giovane e di genere femminile o non conforme. “Ciao a tutti, io sono una psicologa di comunità a Padova. E volevo solo dire che ad ascoltarvi mi sono davvero entusiasmata”.

L’idea è dell’associazione Common Bubble (con cui noi abbiamo avuto a che fare anche QUI) che, grazie anche ai suoi numerosi volontari e al sostegno dei partecipanti, è riuscita nel miracolo di rendere in tre anni il festival un punto di riferimento, proprio mentre la distanza della provincia italiana (leggi anche QUI) dai centri culturali più importanti sembra sempre più incolmabile. Le polemiche non sono mai mancate, ovviamente, ma la sua importanza risiede proprio nel realizzarlo in questo territorio, nel dargli un’opportunità di apertura e confronto (oltre che di visibilità). Le reazioni degli abitanti si potrebbero inserire in una gamma che va dall’apertura curiosa di un’anziana che ascoltava un incontro serale alla finestra, alla chiusura di un’altra che sbatteva la persiana (“Mamma mia!”) dopo aver visto passare un ragazzo con una gonna.

Femminismo storico o transfemminismo intersezionale? Inizio scoppiettante con l’acceso panel fra l’Associazione donne di mondo, nata a Civitanova Marche nel 2011 e composta da donne provenienti da diversi percorsi politici, e Liberә Tuttә, una collettiva transfemminista nata nel 2021 nel Piceno dopo la vittoria della destra nella Regione Marche. Da un lato, le prime hanno ribadito che la forma primaria di dominazione è quella esercitata dall’uomo sulla donna, un concetto radicato nel femminismo storico che si concentra sulle disuguaglianze di genere come aspetto centrale dell’oppressione sociale. È stato poi ribadito che il sesso biologico esiste come una realtà oggettiva, mettendo in guardia contro i rischi del linguaggio inclusivo e dell’uso della ‘ә’, che potrebbe portare a un pericoloso indifferentismo, annullando le specificità femminili in un generico neutro. Dall’altro lato, la collettiva ha presentato la prospettiva intersezionale, che riconosce come l’oppressione non possa essere compresa analizzando solo il genere, ma debba considerare anche le interazioni con altre identità sociali come razza, classe e orientamento sessuale. Oltrepassando i confini del femminismo storico, si vuole promuovere l’autodeterminazione come principio fondamentale per tutte le persone. E d’altronde la natura stessa ci mostra che esistono più di due sessi: sesso e genere, sebbene correlati, sono però distinti e non possono essere ridotti a semplici categorie binarie.

Romanì a chi? Si tratta di un termine poco noto, ma il più corretto per esprimere complessivamente una grande varietà: rom, sinti, manouche, kale, romanichals. Ciascun gruppo si definisce e viene definito in maniera diversa in base alla provenienza geografica, alla lingua parlata, alla religione professata e ai mestieri tradizionalmente esercitati. Ogni gruppo a sua volta si suddivide infatti in sottogruppi. Ad accompagnarci in questo viaggio è Morena Pedriali Errani, artista e attrice di una famiglia sinta di tradizione circense, con il suo romanzo d’esordio ‘Prima che chiudiate gli occhi’ (Giulio Perrone Editore). “L’ho scritto spinta dalla rabbia, incanalando la mia reazione a cui i popoli romanì sono sottoposti nell’accesso all’istruzione, alla sanità, al lavoro…”. La storia ha uno spunto autobiografico e narra la storia di Jezebel e della sua famiglia sinta che si trova ad essere straniera nel proprio Paese, in un arco temporale che va da fine anni ’30 alla Seconda Guerra Mondiale. Sullo sfondo il Samudaripen, l’Olocausto dimenticato e della lotta partigiana dei romanì, fondata sul disarmare e sabotare (senza uccidere). “Allora come oggi dover nascondere ed edulcorare la propria identità per sopravvivere… Le prime persecuzioni in Italia avvengono nel 1925 e poi durante la guerra ci saranno dei campi appositi, anche se le tracce in molti casi sono state lasciate sparire”. E attenzione ai termini, “i romanì non nascono nomadi (ma semmai lo diventano costretti dalle persecuzioni subite nei secoli nei vari Paesi) e soprattutto lo sono in minoranza; ‘zingaro’ si rifà invece agli schiavi rom della Romania, una condizione di rara ferocia che lambisce ancora gli anni ’70; ‘gipsy’ indica un’origine etnica sbagliata, perché non egiziana bensì indiana”.

La Palestina raccontata dai palestinesi. Per una volta non un racconto, pur fondamentale, fatto da storici, esperti di geopolitica, politici, giornalisti… ma da due ragazze (emozionate, peraltro, di essere sul palco): Hind Abushkhadim e Yasmin Dabash. Una palestinese, attualmente dottoranda, e una italo-palestinese (marchigiana ma oggi a Londra) di seconda generazione. Ed è quest’ultima che dice subito: “In Occidente è davvero diffusa l’islamofobia e lo dico io che fino a qualche anno fa indossavo il velo (e dovevo come dimostrare ogni volta di non essere una terrorista). Il mio impegno, come quello di qualunque palestinese in diaspora, è quello di spiegare la propria terra”. Una terra, aggiunge Hinda, “molto simile all’Italia, a livello culinario, architettonico, una cultura mediterranea come la vostra; colorata, piena di voglia di vivere. Un Paese colto. Ma io, nata a Gerusalemme, non posso farvi ritorno e infatti ora vivo a Betlemme. Viviamo in una prigione a cielo aperto, in un regime di apartheid”. Insieme hanno criticato la politica dei social network di penalizzare ogni contenuto di sostegno alla causa palestinese, stigmatizzando il silenzio ipocrita di tanti attivisti di cause nobili (femminismo, diritti dell’infanzia, istruzione, ecc.) che non hanno saputo dire una parola su quanto avviene a Gaza. Yasmine ha votato il suo profilo social all’attivismo “e ho perso tanti dei miei contatti, ma io sono questa persona. E ringrazio i miei genitori per avermi permesso di apprendere l’arabo: oggi vivo più liberamente la mia cultura, a Londra”. Demolire gli stereotipi e gettare luce sulla condizione della Palestina: l’obiettivo del dialogo. A conclusione, spazio – proprio all’ora della cena (veg) – per una suggestiva immersione sonora nella terra dei limoni con Tareq Abu Salameh, musicista e cantante palestinese che, attraverso le sue canzoni, colleziona storie orali e memorie collettive.

Monogamia, sì o no? Con uno stile scanzonato (l’esperienza del loro podcast, faqthepolypodcast, aiuta) Bb e G, ci hanno introdotto in serata nel mondo della relazionalità. Il tutto intervallato dalla splendida slam poetry recitata in diretta da Olympia. Alla tradizionale monogamia, si affiancano sempre di più altri modi di vivere le relazioni. Poliamore non vuol dire semplicemente avere più partner, ma costruire relazioni multiple – basate sull’onestà, la trasparenza e il consenso di tutti gli interessati – che tentino di soddisfare le nostre esigenze emotive. Poi c’è la coppia aperta, dove i partner scelgono di stare insieme, ma con l’accordo di poter esplorare altre relazioni o connessioni sessuali al di fuori della coppia, senza la colpa del tradimento. Una dinamica che si basa sulla fiducia reciproca e sulla comunicazione costante. E si finisce con l’universo dell’anarchia relazionale, dove le gerarchie amorose scompaiono e tutte le relazioni, siano esse romantiche, amicali o familiari, vengono considerate importanti quanto quelle di coppia. In questo modello, non ci sono regole prestabilite: ogni connessione è unica e le etichette tradizionali vengono messe al bando. Esploriamo, il loro invito.

SECONDO GIORNO

Comunicazione e decostruzione. “Dobbiamo uscire dalle nostre bolle social e farlo vuol dire lasciare il nostro io. Usciamo dalla ‘porta’, ma alle volte servirà uscire dalla ‘finestra’ e, quindi, farsi male. Ma non dobbiamo avere paura delle nostre fragilità. Così come non si deve avere paura di una parola: radicalità. Che spesso viene sostituita con ‘estremismo’ per demonizzarla. Per questo dobbiamo ringraziare il FəmFest, uno spazio libero e radicale di cui non avremmo bisogno se la realtà fosse diversa… Dobbiamo essere consapevoli di essere la minoranza della minoranza, per questo dobbiamo imparare a infiocchettare le cose: così come veniamo manipolati dal potere così dobbiamo noi manipolare. Non possiamo passare per le ‘zecche di sinistra con le birkenstock’. Quelle, nei contesti in cui serve, non possiamo metterle. Così come devo abbozzare se mi dicono ‘Non pensavo che una persona nera potesse essere così brillante’. Preparàti e capaci di agire collettivamente. Il potere non lo conquistiamo da soli”. Questo il succo degli appassionati interventi di: Marianna the influenza, italiana di seconda generazione nata nelle Marche e impegnata nella creazione di “contenuti fotonici al gusto di uguaglianza sociale e grassofobia”. Ha iniziato a farlo da quando ha capito che la società avesse un problema serio con il peso etnico e corporeo; Stefania N’Kombo Josè Teresa, laureata in Storia della Filosofia, attivista transfemminista per la lotta intersezionale italo-angolana e content editor.

Abilismo, sanismo… che significano davvero? Si parte dalla storia diRebekah Taussig, narrato in “Felicemente seduta”, edito nel 2022 da le plurali, casa editrice femminista e indipendente. Con un illuminante e partecipatissimo panel a tre, con Beatrice Gnassi, editor, traduttrice del libro e co-fondatrice della casa editrice (“il nostro obiettivo è toccare temi complessi ma in modo non accademico”), Marta Migliosi, attivista e consigliera nazionale Unione italiana lotta alla distrofia muscolare e Margherita D’Ignazio, attivista e studentessa di antropologia e pedagogia. Partiamo dai termini, “che non troviamo sul dizionario e questo è indicativo”. Sanismo, abilismo sono due forme di discriminazione e pregiudizio contro le persone disabili, fisicamente e/o mentalmente: le persone senza disabilità sono la norma e le altre sono, appunto, anormali e inferiori, disturbate e quindi da aggiustare. È possibile costruire un immaginario di mondo dove tutti i corpi abbiano spazio, dignità e libertà? “Trans, queer e disabili sono accomunati dalla patologizzazione: occorre riappropriarsi di sé, della propria identità, del proprio corpo, rompendo con un sistema di relazioni e stereotipi. L’antiabilismo ha bisogno di una modifica radicale del sistema, ha bisogno di discussione politica: noi siamo un movimento politico”, rivendica Marta. “La lotta antiabilista passa dalle lotte di liberazione (dei popoli, dei generi, ecc.): contrapporre alla verticalità della società una nuova orizzontalità”. Rebekah Taussig fa immergere il lettore in un mondo abilista, in un continuo rimando fra il particolare e il generale. E così fanno gli interventi dal palco e dal pubblico. Rovesciando le prospettive a cui siamo abituati. Dal catcalling, violenza rivolta verso il femminile da cui una ragazza disabile può sentirsi esclusa, agli atti di gentilezza imposti dai corpi abili: “Smettiamola di accettarli per compiacere gli altri”. “Anche la cura può essere una forma di esercizio di potere, dobbiamo esserne consapevoli” ricorda Margherita. Riflettiamo: “Che cosa vuol dire indipendenza? Esiste davvero? Io non sono autosufficiente e ho bisogno di aiuto, tutto sta nel capire in che dimensione lo si esercita”, conclude Marta.

Un’altra Lido Tre Archi. Si tratta di un quartiere del Comune di Fermo, che si presenta come realtà multietnica, con 39 nazionalità diverse e con la maggior presenza di popolazione immigrata. Geograficamente isolato perché compreso sui quattro punti cardinali – tra l’Adriatico e la ferrovia adriatica – tra la foce del fiume Tenna e il fosso degli Alberelli. Il quartiere nasce negli anni ’60 come seconde case per operai da abitare nel periodo estivo e dunque progettato senza quegli spazi e servizi necessari a una popolazione stabile. I bassi affitti invernali hanno attirato nel tempo fasce sociali fragili. Degrado e criminalità hanno gradualmente espulso la popolazione di primo insediamento lasciando un ghetto chiuso sia al proprio interno che all’esterno ma che, se i progetti di riqualificazione non si rivelassero alla fine ben calibrati, potrebbe forse rischiare una gentrificazione. Criminalizzata e spesso militarizzata, finisce oggi sulle cronache perlopiù per questioni di droga. Ma c’è molto altro. A raccontarlo Laura e Stefano de La Perdigiorno, una libreria indipendente (che ha curato uno splendido angolo libri al Festival) che offre laboratori, corsi, letture, presentazioni e un ampio spazio dedicato alla letteratura per bambini (ci si è soffermati sugli splendidi libri, non solo per bambini, di Settenove edizioni). Un luogo di accoglienza e di progetti, come ‘Nati per leggere’. E poi la Biblioteca diffusa, dallo scorso novembre, costruita con donazioni pubbliche e private (di singoli, come il collettivo Wu Ming, e di tante case editrici, soprattutto indipendenti, a cui era stato tenacemente richiesto): 1.200 volumi in tre spazi diversi. La Libera scuola diffusa (Popolare Transculturale), con i suoi vari laboratori aperti a tutti: ad esempio Scrittura autobiografica; Riscriviamo la storia in chiave transculturale (a partire dalla condivisione delle storie dei partecipanti e in ottica anticoloniale); e poi con linguaggi universali come la danza. Il tutto fondato sul passaggio dall’integrazione, dalla logica assimilativa, di omologazione dal diverso all’uguale, all’interculturalità, basata sulla solidarietà collaborativa e partecipata che conduce dal diverso al nuovo. “Noi operiamo con animazioni di comunità, fondate sul conflitto. Inteso non come violenza, ma come una postura per attivare processi. Si fanno parlare le persone non per enfatizzare il loro stato di bisogno, ma per attivare la partecipazione (e far leva sulle loro risorse, che ci sono). Ad esempio, dal bisogno dell’apprendimento linguistico, siamo arrivati alla costruzione della lingua per osservare le parole criticamente, farle esplodere e guardarle in una dimensione oppresso-oppressore: ‘autoritarismo’, ‘capitalismo’, ecc. Oppure, nella scelta del tema della ‘Parata Sociale di Carnevale’: si era partiti col tema sicurezza. Sorprendentemente introdotto da loro stessi, che diversamente da noi non percepivano la militarizzazione e magari ne avrebbero voluta di più. Da lì il conflitto con noi e la riflessione su ‘cos’è la sicurezza?’. Ci si è risposti alla fine che è giustizia e, quindi, si è arrivati alla scelta del tema: il diritto alla casa”. Dal pubblico: “Voglio fare parte di una cosa come questa che avete costruito!”.

La cultura e la Sibilla. Tea Fonzi è un’iconologa da quando ha scoperto che esisteva una storia dell’arte che non parlava soltanto di stile e autori geniali, ma di contesto, di cultura, di committenti… insomma: raccontava la Storia. Storia e tradizione sono una risorsa fondamentale per la nostra vita di oggi (e Tea lo dimostra sui social e con un podcast). Le immagini raccontano la cultura in cui sono state create; parlano a chi le guarda. Ma riuscire ad ‘ascoltare con gli occhi’ e comprendere il loro messaggio non è semplice e lo storico deve imparare a farlo procedendo con attenzione. Nel corso di una serata insieme, davanti a un focolare comunitario (sebbene a batteria) e con la sua strabordante simpatia, ha tentato di ricostruire in rigoroso dialetto marchigiano (una scelta precisa di immediatezza e legata all’oggetto narrato) la storia della Sibilla Appenninica, misteriosa fata che ha accompagnato lə marchigianə per secoli. Chiarendo in anticipo che il tessuto culturale di un luogo è frutto di un ordito, il contesto geostorico dato, su cui si inserisce una trama, le possibili scelte, le risposte che gli vengono date. Le Marche con il proprio contesto hanno prodotto il paesaggio della mezzadria (il mezzadro ripagava con la metà della produzione il proprietario del terrano) e quello delle comunanze agrarie montane (di gestione collettiva). E da qui la Sibilla appenninica, collegata a figure classiche poi riprese dal Cristianesimo, rappresentata figurativamente solo da Adolfo De Carolis e testimoniata solo intorno al ‘400 per iscritto dal gentiluomo francese Antoine de la Sale e dal letterato fiorentino Andrea da Barberino che compone ‘Il Guerrin Meschino’. Si ripercorrono le opere e le storie in modo appassionato e divertente. Per arrivare, però, a chiarire quanto quel mondo che ha prodotto la storia sia quello della pastorizia, un mondo molto colto sia nelle pratiche che nella cultura orale. E così l’origine del salterello, ballo che scardina i tradizionali rapporti fra i sessi e trova giustificazione e origine dal mondo della Sibilla. Fino a Joyce Lussu che, riprendendo questi racconti, li riscrive dando voce a chi non l’aveva avuta. Li tradisce, ovvero fa omaggio alla tradizione. Perché la cultura è conoscere la tradizione e ri-raccontarla, come si è sempre fatto e come l’excursus di Tea – attraverso i secoli e i luoghi – ci ha ricordato. La tradizione ha sempre qualcosa da insegnarci. D’altronde l’Amaro Sibilla, gentilmente offerto a tutti, è prodotto col mix di erbe che i pastori usavano per curare la malaria.

Di seguito il programma completo e i bellissimi manifesti del Festival

Giorgio Tabani

Racconto storie.

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