Nicola Gardini a San Benedetto, da Oxford per ricordarci la bellezza dello studio

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Alcune bambine afghane con un uomo, il deserto, un muretto”. Nicola Gardini tiene questa foto appesa per ricordare e ricordarsi quanto l’istruzione rappresenti un privilegio. “Si tratta di un insegnante con le sue alunne, che ogni giorno escono di nascosto dall’abitato e, in mezzo al nulla, imparano a leggere e scrivere, nonostante il divieto dei talebani”. Sollecitato da Giovanna Frastalli, questo non è che l’antipasto della sua risposta alla domanda: “Cosa si intende per ‘buona scuola’?”. L’occasione è la presentazione del suo ultimo libro “Studiare per amore. Gioie e Ragioni di un infinito incanto” organizzato da I Luoghi della Scrittura e Libri ed Eventi allo chalet Da Luigi di San Benedetto del Tronto.

L’AUTORE – “Tanto vale che dichiari immediatamente il mio curriculum. Ho frequentato il liceo classico e mi sono laureato in Lettere classiche all’università (a Milano), e dopo la laurea ho anche preso un dottorato in Letteratura comparata (a New York); e ho insegnato latino e greco in un paio di licei (il Pietro Verri di Lodi e il Manzoni di Milano, lo stesso in cui avevo conseguito la maturità), ho insegnato letteratura comparata in un paio di università italiane (quelle di Palermo e di Feltre) e americane (Columbia University e New York University), e ora, da diciotto anni, sono professore di Letteratura italiana e comparata all’Università di Oxford” così si racconta all’inizio del libro e si potrebbe aggiungere che scrive poesie, saggi (moltissimi l’hanno conosciuto con “Viva il latino”), romanzi, memoir e articoli giornalistici ma anche che è apprezzato traduttore di poesia dal latino e da diverse lingue moderne, in particolare l’inglese; e poi è pittore, prevalentemente con l’olio su tela e su cartone. I suoi interessi spaziano dalla letteratura alle lingue, dall’arte antica a quella moderna, e il suo lavoro è caratterizzato da un profondo dialogo tra i vari campi del sapere.

LA SCUOLA – “Io, da questa istituzione, ho tratto molto beneficio (e le sono grato) perché senza non avrei avuto le occasioni che ho avuto, per me è qualcosa di realmente vitale. Senza drammatizzare, io vengo da un mondo senza libri: un paesino del Molise con nonno analfabeta, nonna con la terza elementare, madre con le elementari… Mi sono dovuto conquistare i miei primi libri, il sogno di una cultura più ampia. Come mi è venuta questa sete? Proprio con la scuola. Come le bambine afghane, come tanti italiani e anche tanti immigrati nel nostro Paese… tutti dovremmo avere questa sete. Tutti abbiamo bisogno ogni giorno di ricominciare (o continuare) la nostra avventura dal muretto di quella foto.

Una buona scuola, per Gardini, è quella che “protegge i doni individuali (che cosa ognuno è in grado di fare e come possa farlo meglio). Purtroppo, la nostra scuola con i programmi che ha, con il sistema di valutazione che ha… a causa di tutta una serie di riti, non riesce a farlo abbastanza bene. La scuola fa molto bene a chi è portato per un certo tipo di studio e molto male per chi non è portato. Una buona scuola dovrebbe, invece, dare a tutti l’occasione per affermarsi, dando fiducia agli studenti. La scuola non deve lasciare nessuno indietro (né vantarsi quando lo fa…): se una classe va male, la domanda debbo farmela io docente”.

Dopo aver chiesto quanti fossero gli insegnanti presenti (fra cui io), ha continuato: “Ce ne sono tanti che vogliono impegnarsi così, nonostante la miseria dello stipendio. Ma dobbiamo ridurre il loro carico di lavoro, snellire i programmi. Non è possibile che si stia per 18 ore a spiegare, i ragazzi devono lavorare molto più da soli e in gruppo, l’insegnante deve essere una guida. Ci deve essere ancora la possibilità del docente-sacerdote che fa la sua omelia, quell’ora in cui lo studente ha voglia di ascoltare e rimanere incantato, ma i tempi sono cambiati. Bisogna dialogare, bisogna dibattere e scrivere di più! Mi ispirerei al modello anglosassone, che è poi quello che faccio a Oxford, ovvero lavorare molto sull’argomentazione (cioè la capacità di costruire un argomento, difendere un punto di vista). Nient’altro che un vecchio modello medievale, la disputatio, che si è tramandato nei secoli. Noi non abbiamo orali ma scritti, costruiti in questo modo. Questo ci vuole a scuola: la libertà di costruire idee”.

E poi il sistema di valutazione che “è sempre più superato, perché guarda quello che uno non ha fatto e non quello che ha fatto. Io toglierei i voti e lavorerei piuttosto con dei giudizi. In un sistema fondato sulla fiducia, non esistono studenti che non svolgano sufficientemente bene il loro lavoro (e l’ho sperimentato personalmente). L’apprendimento mnemonico di un certo numero di nozioni è essenziale, così come per fare musica impari le note e le scale, ma poi… facciamo jazz. Ecco la gioia di guidare dei giovani nell’avventura dello studio”.

Che cosa vogliamo che le nuove generazioni imparino? “Ce lo dobbiamo chiedere, non c’è una conoscenza ideale, ogni forma di conoscenza è strutturata sulla base della società in cui si inserisce e della sua idea di futuro. Basta con i libri di testo, sono dei centri commerciali in cui hai tutto, spiegazioni, schemi, esercizi, cronologie, immagini, mappe. Si leggano invece i libri! Come in matematica e fisica si va in laboratorio e ci si va avendo appreso le necessarie nozioni di base. Non mi interessa sapere la data della battaglia, ma cosa è uscito dall’Atene di Pericle, perché Cicerone è importante, perché continuiamo a leggere i Promessi Sposi mentre non mi serve più a nulla Vincenzo Monti, perché dovrei lasciare Pindaro nel dimenticatoio solo perché lo considero oscuro, che cos’è l’oscurità? Ecco questo dovrebbe fare la scuola, ma facendolo dire agli studenti: non è l’insegnante a dover dire perché una cosa è bella o brutta, è lo studente a doverci arrivare lavorando insieme a lui. Questo è il vero scambio, il vero studio!”.

STUDIARE – “Questa è la parola chiave in questo mio libro, che è tutt’altro che un libro da prof. Bisogna, infatti, distinguere fra studiare e apprendere. Memorizzare dati, in qualsiasi ambito (grammatica, matematica, storia, geografia, ecc.), significa apprendere; studiare implica comprendere ed elaborare. Memorizzare è fissare informazioni (un’operazione preliminare, necessaria, ma solo iniziale, alla quale troppo spesso si limita la pratica scolastica); studiare consiste nell’estrarre ulteriori informazioni da quelle memorizzate. Studiare è qualcosa di creativo e, infatti, la prima forma di studio è il gioco. Studiare è osservare, cercare di abbracciare la totalità, riconoscendo le parti e le relazioni che la costituiscono. Pensiamo al panorama, la meraviglia del colpo d’occhio, che si fa paesaggio, ovvero qualcosa che osserviamo e poi interpretiamo. Lo studio è l’esercizio dello sguardo (mentale). Studiare è osservare e trovare forme inattese di amicizia, di accoppiamento, di collegamento, a tutti i livelli, fra le cose – mi fa pensare alle correspondances di Baudelaire. Qualcosa che la letteratura ci insegna molto bene, cos’è se non dialogo segreto con l’invisibile, con quel che non c’è più, con quel che non c’è ancora (pensiamo alla fantascienza), con quel che può essere”.

AI – “Il mondo moderno ha perso l’incanto, secondo il grande filosofo e sociologo Max Weber, per me studiare vuol dire ricreare l’incanto (per questo il sottotitolo del mio libro). La meccanizzazione ha impoverito sensi e ragione, oggi la minaccia delle macchine è l’intelligenza artificiale, sono i big data. Ogni volta che l’AI opera al mio posto, ho rinunciato a pensare e quindi mi ritrovo asservito e manipolato da chi lo fa ‘per me’. I big data, analogamente, si basano sul già accaduto, sul già pensato, non tenendo in alcun conto la pluralità dei punti di vista e la varietà delle soluzioni. Tutto dipenderà dall’uso che faremo di questi strumenti, in definitiva: saranno utili solo se combinati alla nostra creatività. Lo studio è uno spazio privato, tutto nostro, per accrescere la nostra partecipazione al mondo, per essere sempre più dentro al mio, tuo, suo, al nostro mondo: alla fine tutto lo studio, mio, tuo, suo, nostro si incontra e nasce un dibattito, un dialogo, nasce la società, in cui ognuno porta il suo contributo”.

CULTURA – “Una buona cultura è fatta di sufficienti informazioni e poi di sensibilità, anzi di amore per le cose belle. Aristotele ci ha detto che il bello è forma, quindi, dove trovo una struttura regolata lì ho la bellezza (una buona espressione di matematica, una poesia, un film, una palma). È bello tutto quello che rivela una sua compiutezza, e a volte anche l’incompiutezza in realtà è bella, è una forma.
Siamo in un’epoca di una grande disintegrazione di discipline, in cui sparisconocerte partizioni nette, quelle che abbiamo imparato al liceo: ci dobbiamo confrontare con una società che non è più quella che ha inventato queste partizioni, ma vive di ibridazioni continue.

Io, da parte mia, non sono esperto di niente: non ho un autore su cui si possa dire che io sia l’autorità massima, ho ancora un’idea – invece – molto umanistica, enciclopedica di conoscenza come continua riconfigurazione dell’insieme a seconda dell’elemento nuovo che ci butto dentro.

C’è ancora tantissima gente che legge, che si informa, anche tantissimi giovani (nonostante i cellulari sempre in mano) hanno delle bellissime idee e mi insegnano continuamente cose.

Se la cultura non manca, c’è anche – però – tanta incultura. E, questo sì, è fenomeno nuovo: nessuno si vergogna di essere incolto”.

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