Accogliamo la testimonianza di una delle nostre giovanissime collaboratrici, di cui abbiamo già letto QUI, QUI e QUI.
Al di là del chiasso generalizzato che promana dalle nostre strade, al di là del traffico di cose, persone, notizie delle nostre città, al di là degli scambi su cui si regge il World Vide Web, sembra esserci un grande silenzio. In uno spazio colmo di rumore ogni suono rischia di diventare muto, ormai impercettibile distintamente. Questo grande silenzio comunicativo sembra ormai calato anche dentro il cuore dell’essere umano.
Dunque nella torbida complessità del mondo contemporaneo il grande silenzio rischia di tradursi in impossibilità immaginativa.
Per farci ascoltare cerchiamo di fare rumore o di fare silenzio, ma troppo spesso mostriamo negli occhi la disillusione di chi non riesce ad immaginare una realtà senza efferata, ingiusta e sistematica violenza.
Questa impossibilità immaginativa è il sintomo più importante del controllo possibile su un essere umano.
La storia di Giulia Cecchettin ci colpisce per l’ordinarietà dei soggetti, per la loro estrema vicinanza alle nostre vite e alle nostre esperienze. Ci sentiamo interpellati perché l’accaduto palesa il diretto coinvolgimento di ognuno di noi: non si può distogliere lo sguardo.
D’improvviso ci sentiamo impregnati di questa violenza, l’animo avverte una macchia. Ci rendiamo conto della trasmissione di un livido generazionale che si mostra con molta evidenza ovunque, ogni giorno.
Guardiamoci allo specchio: siamo pieni di lividi generazionali. Violenza di una società in cui dominano omertosamente privilegi di genere e di razza, violenza psicologica ed economica, gender pay gap, femminicidio sistematico, stupro, catcalling. Siamo tutti coinvolti.
I nostri lividi non devono essere guardati come una colpa, ma come una responsabilità. Le violenze sono qualcosa a cui le generazioni di adulti sono chiamati a rispondere. Una risposta che necessita tutto il nostro sforzo immaginativo.
Il gesto più rivoluzionario che possiamo fare, guardando in faccia con onestà ai problemi del reale, è osare immaginare qualcosa di diverso.
Oso immaginare che esista un sistema che liberi l’uomo dal suo trauma generazionale. Un modo con cui gli uomini possano iniziare ad imparare una sana regolazione emotiva dei loro bisogni invece che esprimersi con il controllo e il potere. Desidero pensare possibile fermare questa pandemia globale che dura da secoli, la quale porta qualcuno a sbattere una porta, ad affondare un coltello, a ottenere quanto si desidera con la forza fisica e psicologica. Io so che l’uomo è molto meglio di così, può scrollarsi di dosso con rabbia il suo retaggio, può considerarsi abbastanza forte da assumersi le sue responsabilità e spezzare questa assurda catena di lividi generazionali.
In memoria di chi è stata vittima.
In sostegno di chi ha subito e sta lottando.
Osiamo tutti immaginare che sia possibile domani.
E tu? Cosa osi immaginare?