Ascoli, un amore impossibile al tempo dei longobardi raccontato da Erminia Tosti Luna

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Saint Germain en Laye, Francia. Qualche anno fa ero al Musée d’Archéologie Nationale, ospitato all’interno di uno dei più importanti castelli reali. A guidarmi il conservatore capo che mi lascia, nel finale, nella sezione dell’archeologia comparata (in quello che era stato lo splendido salone delle feste). Fra le teche di una museografia ormai un po’ vetusta (“la stiamo per rinnovare”), ho un tuffo al cuore: “Castel Trosino, Ascoli Piceno”. Ebbene sì, nel 1872 in Contrada Pedata, un colle prospiciente la rupe di Castel Trosino (AP), era stata rinvenuta fortunosamente la tomba di un cavaliere, provvista di un prezioso corredo smembrato e disperso subito dopo il ritrovamento. Una ricca parte era arrivata, purtroppo, fino ai dintorni di Parigi.

Chi era il cavaliere? Era solo il primo rinvenimento (anche se c’era stata qualche anticipazione fin dal XVII sec.) della necropoli di Castel Trosino, testimonianza di una presenza longobarda rilevante. Una necropoli “di ‘prima generazione’, nelle quali i defunti venivano inumati con l’accompagnamento di un ricco corredo di armi, gioielli e suppellettili, usanza che presto si esaurì per seguire il modello locale”. In uso per un periodo relativamente lungo (secoli VI-VII), i ricchi corredi ritrovati in alcune delle circa 300 tombe scavate danno l’idea della sua importanza: un autentico tesoro storico e artistico. I cosiddetti ori di Castel Trosino (insieme con quelli di Nocera Umbra) sono da tempo nelle collezioni del Museo romano dell’Alto Medioevo, dove occupano due intere sale; parte del materiale è al Museo di Ancona e in misura minore in altre collezioni in giro per il pianeta. La restituzione dei reperti al luogo di origine è stata più volte reclamata dagli ascolani, forse con non troppa convinzione; qualche anno fa è stato inaugurato un piccolo Museo dell’Alto Medioevo al Forte Malatesta, sperando che esso possa, un giorno, accoglierli interamente.

Perché ne parliamo? L’occasione è l’uscita di un romanzo di Erminia Tosti Luna (l’abbiamo citata QUI), docente in pensione di materie letterarie, giornalista e appassionata di storia ascolana. “Arminia e Gualberto” ci viene presentato così: “Ascoli 21 maggio 578. il ribelle ascolano Agostino viene trucidato insieme ai suoi figli sulla pubblica piazza dagli occupanti della città: i Longobardi. Ad assistere al supplizio, dopo avere eluso il divieto del padre, c’è Arminia, la figlia del miglior fabbro della città. a contenere l’agitazione di quella giornata funesta c’è Gualberto, biondo invasore che sembra non condividere nulla dei rozzi costumi dei suoi compagni. Nel frattempo, al convento di San Benedetto a Villa San Gennaro fra Jacopo sta cercando di venire a capo di un’antica pergamena di lingue che se decifrata potrebbe restituire alla luce antichi volti e fatti che sembravano destinati a essere dimenticati per sempre. Arminia e Gualberto è il racconto di un incontro impossibile, una storia sul potere dell’amore e della cultura, che, quando si uniscono sono capaci di superare qualsiasi ostacolo”.

Si tratta di un romanzo breve, semplice e delicato ma molto denso. Si nota fin dalle prime pagine la viva passione per la storia locale dell’autrice. E, da docente di Storia, non posso che non consigliarne la lettura a persone di ogni età (a partire dai miei studenti e dalle mie studentesse) che vogliano tuffarsi in quell’epoca. La ricostruzione è minuziosa e attenta, si capisce subito il lungo e complesso lavoro preliminare sulle (purtroppo poche) fonti del tempo e la volontà di usare l’immaginazione per completarle in una possibile (e interessante) rievocazione dell’Ascoli del VI sec. Con vero piacere ci si perde fra i ponti, le strade, le porte, le rovine, le abitazioni, le botteghe (la descrizione di quella del fabbro goto Valfrido è di eccezionale vividezza).

Chi erano i longobardi? Nella primavera del 569 (o l’anno precedente secondo altri calcoli) i longobardi (dal tedesco antico “lunga lancia”), popolo di lingua germanica, fecero irruzione in una penisola italiana che scontava ancora le conseguenze della terribile guerra che per quasi vent’anni, dal 535, aveva opposto l’impero bizantino, retto allora da Giustiniano, al regno dei goti, e che si era chiusa con la disfatta di quest’ultimo. Il lungo conflitto aveva sconvolto molte regioni, soprattutto al centro-sud, con un crollo demografico che si accompagnava allo spopolamento di vaste aree, alla rovina di numerose città e di molte infrastrutture ereditate dall’epoca romano-imperiale (a cominciare dal sistema stradale), alla crisi delle attività economiche e produttive. Inoltre, il reintegro dell’Italia nell’impero, in sostituzione del dominio dei goti, non era stato accolto con favore da tutta la popolazione locale, che avvertiva i militari e i funzionari imperiali, provenienti dall’oriente, come stranieri (malgrado agissero nel nome di Roma) e che mal tollerava le opprimenti tasse imposte dalle autorità a un paese dissanguato dagli eventi bellici. A valicare le Alpi sotto il comando del re Alboino c’erano 100-150.000 individui, compresi guerrieri di diverse stirpi vicine nel bacino danubiano, tutti uniti dal miraggio dei ricchi bottini che si contava di conquistare in Italia.

L’esercito era ordinato in farae, cioè distaccamenti militari subordinati a un capo (il dux). Le diverse farae, guidate dai propri capi, si sparsero sul territorio della penisola in modo spontaneo, con un debole coordinamento regio, e, in considerazione anche del numero complessivamente esiguo dei nuovi immigrati, scelsero di insediarsi in pochi luoghi concentrati, di spiccato valore strategico, dai quali fosse agevole il controllo delle regioni occupate. Le città non scomparirono ma si ridefinirono, in ragione delle mutate esigenze abitative del tempo, anche per il forte calo demografico complessivo, con il verificarsi di fenomeni di selezione, di trasferimento di funzioni, di cambio d’uso delle varie superfici e costruzioni. Al loro interno i longobardi occuparono all’inizio quartieri separati, dai quali potevano sorvegliare l’intero centro urbano. Occuparono rapidamente le aree dal Friuli alla Pianura Padana. Si erano mossi da un’altra ex provincia dell’Impero, la Pannonia (attuale Ungheria), dove erano venuti in contato col mondo romano e in parte di erano convertiti al cristianesimo ariano. Nel complesso era il popolo più arretrato fra i diversi protagonisti delle grandi migrazioni.

Un periodo buio di guerre civili seguì l’assassinio di Alboino a causa di una congiura: si affrontarono in armi i diversi capi longobardi, i duchi, con i loro uomini, fra massacri e confische territoriali. Ci volle tempo affinché si potesse imporre una certa unitarietà al regno, anche se le lotte per l’elezione a re da parte dei duchi erano motivo d’instabilità perenne. L’occupazione della penisola si estendeva intanto verso l’Italia centrale e meridionale, con estesi possedimenti raggruppati in ducati di cui ricordiamo i più importanti: quello di Spoleto (di cui faceva parte Castel Trosino e la città di Ascoli) e quello di Benevento. Ai romani d’oriente rimaneva la Liguria, l’Esarcato (parte delle attuali Emilia e Romagna), la Pentapoli (le coste romagnola e marchigiana, con parte dell’entroterra di Marche e Umbria), le isole di Sicilia, Sardegna e Corsica.

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