(La vera historia dei Re Magi)
Matteo, che un tempo si chiamava Levi ed era stato esattore delle tasse, divenuto un discepolo del Signore, uno dei dodici, tante cose le aveva vissute in prima persona, altre invece gliele avevano raccontate quelli che c’era stati, ma non poteva mettere la mano sul fuoco per tutte perché a volte, quando si racconta, si aggiungono particolari a piacimento. Perciò negli incontri che faceva, premetteva sempre “dicono”. Non per lavarsene le mani, naturalmente perché non ne era il tipo, ma per chiarire che alcune cose non erano farina del suo sacco.
Una di queste storie era la disputa sui Re Magi. Erano tre o quattro, come qualcuno s’avventurava a dire? Non che il numero cambiasse il succo del discorso, ma se si cercava la precisione valeva la pena approfondire la verità. Così, con certosina pazienza, Matteo si era messo ad indagare ai quattro angoli del mondo, ascoltando versioni, pettegolezzi, e dettagli, che spesso contrastavano tra di loro ma che portarono a scrivere la parola fine sul dibattito. I Re Magi erano effettivamente quattro. Ma non arrivarono insieme.
– Cosa successe Matteo? – chiese un giorno curioso il giovane Giosuè, che seguiva da qualche tempo l’apostolo.
- Prima che il Figlio di Dio venisse al mondo, come il profeta aveva predetto – rispose Matteo – qualcosa di strano era successo nei cieli della Palestina. Era apparsa una strana stella che non era come tutte le stelle, ma aveva una specie di coda; per gli scienziati era il pulviscolo celeste che seguiva ogni corpo in formazione, ma per il popolo era semplicemente una stella cometa, che in ebraico significava ruota infuocata, spada celeste, segno nel cielo, luce che proviene dall’alto.
- Come andarono le cose, maestro? – incalzò Giosuè, sempre più incuriosito, perché lui era uno di quelli che aveva sempre creduto che i Magi fossero stati solo tre. Almeno così gli avevano raccontato quelli che trentacinque anni prima li avevano visti rendere omaggio al Figlio di Dio.
Matteo si sedette su un grande masso ai piedi della collina, i suoi seguaci e quanti erano arrivati per ascoltare la sua parola, erano già seduti intorno, raccolse un pezzo di legno che era ai suoi piedi e con quello disegnò o scrisse qualcosa sulla terra come per ricordare, poi alzò la testa, guardò la gente e cominciò.
Disse che i Re Magi erano originari dell’altopiano iraniano e tutti all’inizio erano sciamani legati al culto degli astri, poi erano divenuti sacerdoti del dio Ahura Mazda, che dicevano fosse il protettore di tutte le creature. Ma a quel tempo non era ancora conosciuta la parola del Signore e le genti erano cieche alla vera fede, perdendosi in idoli e dei infiniti. Dei tre re Magi aveva parlato l’oracolo di Balaam, cioè Zoroastro, annunciando che un astro sarebbe spuntato da Giacobbe e uno scettro da Israele. Il numero tre aveva una valenza simbolica, perché indicava le tre razze umane, discendenti dai tre figli di Noè: Sem, Cam e Iafet.
Melechior era il più anziano dei tre; il nome derivava da Melech, che significava Re, ma anche da Melchisedech, come il Re di Salem che offrì il sacrificio del pane e del vino al tempo di Abramo, aveva capelli bianchi ed una lunga barba. Poi c’era Balthazar, scuro di pelle, capelli crespi e labbra carnose. Infine Gaspar o, come preferivano in molti, Galgalath, perché significava Signore di Saba.
I tre giunsero a Betlemme tredici giorni dopo la nascita del Figlio di Dio. Ognuno portò un dono: Gaspar un calice colmo d’oro, Melechior dell’incenso in un incensiere retto da piccole catenelle per farlo dondolare e Balthazar della mirra che Maria conservò sul suo cuore fino al giorno in cui il figlio fu appeso alla croce.
- Perché quei doni? – chiese Ismaele, un altro seguace della prima ora.
- Perché i Magi pensavano di rendere omaggio ad un Dio. L’oro è il dono che si riserva ai Re e Gesù era il Re dei Re, l’incenso viene bruciato davanti alle immagini degli dei ed è considerato il “profumo soave per il Signore” e Gesù era Dio, la mirra, è usata nel culto dei morti, perché Gesù era uomo e, come uomo, mortale. Erano studiosi di astronomia i Magi e seguivano i segni del cielo, così avevano letto del Messia e Gesù era un “Saosayansh”, il salvatore universale.
Ismaele era giovane ed ancora non aveva scoperto i segreti della vita e confondeva scienza
e superstizione, leggenda e realtà, così restò confuso davanti alla spiegazione di Matteo.
– Un giorno lo capirai anche tu Ismaele! – disse allora Matteo per toglierlo dall’imbarazzo.
Detto questo Matteo continuò con il racconto. Disse che i tre avevano attraversato deserti, paesi ostili e infinite difficoltà per depositare i loro tesori davanti al fanciullo, ma dicono che il Figlio di Dio vedendoli non sorrise, tossì solo, forse per il fumo dell’incenso, che veniva dall’incensiere che Melechior faceva dondolare, o forse per il freddo della stalla, così i tre si alzarono delusi e ripresero il viaggio di ritorno.
- E il quarto Re Magio? – domandò incuriosito Ephraim. Matteo aveva scritto nel suo libro che ce ne era un altro di Magio, ma adesso non ne faceva parola.
- Arrivò anche lui, ma quando tutto era ormai finito. I tre Re Magi erano tornati ai loro paesi di origine e Gesù, Maria e Giuseppe erano fuggiti lontano. Così al quarto non restò che rimettersi in viaggio, non per tornarsene a casa, ma per cercare il Figlio di Dio, giacché il suo unico scopo, prima di morire, era quello di incontrarlo.
Artiban, questo era il suo nome, – disse Matteo – era partito dalla Persia dopo aver visto la stella con la coda nel roseto di Shiraz. Allora aveva lasciato tutto ed era partito per raggiungere gli altri tre a Borsippa e fare insieme la strada verso Betlemme. Aveva preso di che sostentarsi durante il viaggio e nella cintura aveva messo uno zaffiro, un rubino ed una perla per donarli al Figlio di Dio. Borsippa distava dieci giorni di camino, ma in sella al veloce Vasda ce l’avrebbe fatta di sicuro. Attraversò boschi, guadò fiumi, s’inerpico su colline e montagne ma a Borsippa arrivò tre giorni dopo che gli altri, stanchi di aspettarlo, erano partiti. Così fu costretto a riprendere l’inseguimento, senza sapere che la sua strada sarebbe stata irta di difficoltà ed imprevisti.
Vagò per le contrade egiziane, tra le oasi del deserto, le rive del Nilo e le Piramidi, e continuò a cercalo, il Figlio di Dio, in lungo ed in largo finché stanco decise di tornare in Palestina. Arrivò a Gerusalemme. che era il giorno della Parasceve, decise di fermarsi e concedersi un momento di riposo partecipando alla festa. Entrò in una taverna e si sedette ad un tavolo vicino al banco della mescita. Chiese del vino ed un pasto.
– Sono giorni che cammino – disse – e sono stanco ed affamato”. Si tolse il pesante copricapo e lo posò sul tavolo, si asciugò la fronte e salutò un avventore seduto poco distante.
- Da dove vieni straniero? – chiese l’uomo, alzando lo sguardo dal boccale che teneva stretto tra le mani – Da come vesti non sembri essere uno di noi.
- Se te lo raccontassi non ci crederesti, tanto è stato lungo il cammino e misterioso il viaggio che ho intrapreso.
- Tu racconta – rispose l’altro avvicinandosi ad Artiban – io non ho nessuno che mi aspetta ed oggi è festa.
- Dai straniero – gli fece eco il taverniere, che stava portando la caraffa di vino rosso ed un piatto di agnello accompagnato con pane azzimo ed erbe amare – racconta – e si sedette anche lui al tavolo.
Artiban bevve tutto d’un fiato il boccale di vino che il taverniere gli aveva riempito, si pulì la bocca con il dorso della mano, schioccò la lingua compiaciuto per quello che aveva bevuto e cominciò.
- Vengo dalla lontana Persia, vivevo nella città di Shiraz, dove la gente mi ubidiva ed amava ed io regnavo come un giusto su tutta la regione. Ho sempre amato guardare il cielo e studiare le stelle, perché da loro ricavo i segni del destino. Un giorno comparve una grande stella, una stella diversa da tutte le altre stelle, luminosa e grande, si muoveva da oriente verso occidente. Si fermò sopra la mia testa, poi si mosse come se stesse invitandomi a seguirla. Ricordai allora che un tempo un profeta aveva detto che “verrà un giorno in cui in cielo apparirà una luce, quella luce è il Salvatore che sta nascendo. Seguitela e vi salverete”. Decisi allora di lasciare la mia casa e seguire la stella che, muovendosi nel cielo, lasciava alle sue spalle una scia luminosa, come a tracciare una strada a quanti volevano farsi guidare. Avevo preso con me tre perle, grandi come uova di piccione, per farne dono a quel Salvatore, che non sapevo chi fosse e ne dove fosse. Seppi che a dieci giorni di cammino dalla mia terra, altri re stavano per mettersi in viaggio e contavo di unirmi a loro. Ma la strada era lunga e corsi per non arrivare in ritardo. Avevo un cavallo veloce e ce l’avrei fatta se sul mio cammino non avessi incontrato molti bisognosi; io sono un uomo generoso e le sofferenze ho sempre cercato di alleviarle, perciò non ho saputo resistere ai loro dolori…
Raccontò che quando arrivò a Borsippa gli altri erano già andati via. Era già sera e si fermò in un piccolo albergo appena fuori città ed ordinò del vino prima di mettersi a letto. In un cantuccio della locanda aveva notato un vecchio molto malandato, una lunga barba incolta e a mala pena riusciva a respirare. Chiese all’oste chi era e cosa gli fosse successo. L’oste gli raccontò che il vecchio era stato un ricco mercante ma che, per la dissolutezza dei figli, aveva perso tutto ed era stato scacciato di casa. Adesso viveva trascinandosi di strada in strada, chiedendo l’elemosina e non aveva di che pagare le cure che gli erano necessarie. Artiban rimase colpito da tanto dolore. Prese una perla dalla cintura e la dette al locandiere pregandolo di dare assistenza al vecchio, di farlo curare e di tenerlo con se fino alla morte. Il locandiere, che era un uomo giusto, glielo promise ed aiutò il vecchio.
L’indomani Artiban riprese il viaggio di buon’ora. La strada si addentrò presto in una profonda gola stretta tra montagne aspre ed alte, chiazzate da siepi di ginestre, agave, euforbie e piccoli terebinti. All’improvviso aveva sentito delle grida di donna, fermò allora il cavallo ed a piedi cercò tra le rocce cosa stesse succedendo. Trovò alcuni soldati che si erano impadroniti di una giovane donna. Ridevano, la schernivano, qualcuno gli strappava le vesti di dosso. Artiban, pur armato, non avrebbe potuto far nulla contro tanti uomini, così decise di dar loro la seconda perla e comprare la libertà della ragazza. I soldati presero la perla e voltarono i loro cavalli scomparendo all’orizzonte, mentre la giovane, ricopertasi alla meglio, ringraziò Artiban e corse via sulle montagne da dove, forse, imprudentemente era scesa.
Betlemme era ormai vicina, perciò Artiban riprese il cammino: entro sera sarebbe giunto a destinazione.
Poco prima di Betlemme incontrò un piccolo villaggio, uno di quei villaggi che spesso sorgono spontanei intorno ad una stazione di posta. Crescono così velocemente che da poche case diventano presto un centro abitato vitale anche per l’economia locale.
Il villaggio brulicava di soldati di Erode che, con una torcia in una mano e la spada nell’altra, stavano appiccando il fuoco alle case. Dalle case tiravano fuori bambini al di sotto dei due anni, che sgozzavano davanti alle madri che si strappavano i capelli e piangevano e si cospargevano il capo di terra per il dolore. Nei pressi della prima casa lungo la strada vide un soldato, che gli sembrò enorme come un gigante, aveva in mano un bambino tenuto per i piedi e lo roteava in aria tra le grida del piccolo e della madre che si era attaccata ad una gamba del soldato. Artiban non ci pensò due volte, prese l’ultima perla e la porse al soldato, affinché risparmiasse quel piccolo inerme. Il soldato da prima restò stupito e guardò torvo Artiban che indietreggiò, poi, scoppiando in una sonora risata, che rivelò una grossa bocca dove molti denti avevano fatto presto ad andarsene, gettò il bambino alla madre, prese la perla, la ripose nel borsello che aveva nella cintura e se ne andò. La donna intanto aveva stretto a se il piccolo e, non fidandosi delle intenzioni del soldato, era fuggita via, lontano da tutto quell’inferno.
A questo punto Artiban tacque. Il locandiere e l’avventore si guardarono in faccia e poi restarono in attesa che Artiban concludesse il racconto, ma Artiban restò in silenzio.
- Straniero, come andò a finire? – chiese allora il locandiere – Una storia senza fine non è una storia.
- Non è ancora finita – rispose Artiban rimettendosi il copricapo e a tracolla la borsa – Non è ancora finita. Un giorno, forse, ve la racconterò – e, gettato alcune monete sul tavolo, uscì.
Girò per la città senza una meta e senza un obiettivo, seguiva il fiume di gente che si muoveva verso la parte orientale della città, verso alcune colline.
- Dove andate? – chiese ad un certo punto ad un uomo che lo stava superando.
- Andiamo tutti al luogo del Teschio, dove si crocifiggono i condannati. Oggi Pilato ne ha messi a morte tre. Due sono ladroni, uno predicava la pace e l’amore…
- E perché l’hanno condannato allora? – domando sorpreso Artiban che non capiva come un re potesse fare un simile errore.
- Ha detto di essere Figlio di Dio, e per noi ebrei questa è una bestemmia! – E corse via, come se avesse fretta di non perdersi neppure un minuto dello spettacolo.
Fu allora che Artiban capì che finalmente l’aveva trovato, il Figlio di Dio, ma erano trascorsi trentatré anni! Continuò a camminare facendosi trasportare. La fiumana di gente lo spingeva, lo sballottava, lo strattonava e lui seguiva senza far resistenza e alla fine si ritrovò nei pressi di tre croci, già alzate sulla collina. Tre uomini vi erano appesi, inchiodati per le mani e per i piedi. Cadde istintivamente in ginocchio mentre guardava la croce al centro dove un giovane si stava spegnendo. In quel momento un forte terremoto squassò la terra, il cielo si oscurò e le mura delle case vicine si squarciarono. Polvere e fumo riempirono l’aria, mentre i soldati ai piedi della croce e le persone fuggivano via terrorizzate. Artiban non si mosse da dove era, si prostrò solo in terra.
- Signore – disse – ero venuto per adorarti ed avevo tre perle da donarti, ma non sono stato capace di tenerle. Lungo il cammino ho incontrato tanti sofferenti ed a loro ho dato quello che volevo dare a te. Ti chiedo perdono!
Si sentì allora una voce tra le grida della gente che continuava a fuggire via.
- Tu hai fatto quello per cui io sono venuto, Artiban. E quello che hai dato agli altri è come se l’avessi dato a me. Per questo sono venuto al mondo.
Tutto questo a Matteo lo avevano raccontato coloro che avevano assistito ai fatti e che lui pazientemente aveva messo insieme come un grande puzzle. Di tutto il resto che successo dopo al Figlio del Signore fu testimone. Questo raccontò e per quel giorno non parlò oltre. Così la piccola valle, dove la gente si era accampata per ascoltarlo, andò pian piano vuotandosi. Anche i suoi seguaci se ne andarono per far ritorno alle loro case. Ismaele andava avanti con passo spedito e sicuro, Giosuè ed Ephraim lo seguivano a poco distanza. Erano silenziosi perché ripensavano a quanto avevano ascoltato.
– Secondo te quello che ha detto oggi Matteo è tutto vero? – chiese ad un certo punto Giosuè, che dei tre era il più giovane ed inesperto.
- Credo di si, Giosuè – rispose Ismaele, che essendo il più grande ed il più saggio era riconosciuto come capo – Vero per quello che gli è stato raccontato. Lui non è stato presente, ha solo raccolto informazioni per scriverlo nel suo libro.
Tornò il silenzio mentre i tre giovani continuavano a camminare verso la città, che cominciava a vedersi da lontano.
- Ma c’è un’altro personaggio nella storia – disse timidamente Ephraim, che nella sua giovane vita aveva frequentato il Tempio ed aveva sentito i sapienti parlare – Nessuno ne ha mai parlato, ma nella storia c’è entrato.
- Chi sarebbe? – chiese fermandosi Ismaele.
- Beffania, era il suo nome, una vecchina che Artiban aveva incontrato lungo il suo viaggio alla ricerca del Figlio di Dio. Raccontano che fosse già sera ed Artiban le aveva chiesto ospitalità. Colpito dalla sua gentilezza e dalla sua affabilità, l’aveva invita ad unirsi a lui, perché avrebbe potuto partecipare ad un evento memorabile, ma la vecchina si era rifiutata di seguirlo. La mattina seguente però, pentita, aveva deciso di raggiungerlo ma Artiban, che correva veloce sul suo cavallo, era già troppo lontano. Non riuscendo a ritrovarlo, da allora, nel buio di una notte, porta a tutti i bambini un dono, sperando che fra quei bambini ci sia il Figlio di Dio.
- E questo lo avrebbero detto i sapienti? – chiese incredulo Ismaele.
- Non proprio i sapienti – precisò Ephraim, vergognandosi un po’ – ma i servitori che erano con loro. La gente stava a sentirli e molti hanno affermato che così accade sempre in una notte di inizio anno.
- Tu l’hai mai ricevuto un dono?
- Io no, ma non sono un bambino…
- E’ suggestivo però – intervenne a quel punto Giosuè, cambiando discorso – immaginare una cometa che si stacca dalla nube di Oort, precipita verso il centro del sistema solare, acquista una velocità sempre più grande mano mano che si avvicina al sole, supera le attrazioni dei grossi pianeti per arrivare puntuale ad assolvere il suo grande compito: guidare i Re Magi alla capanna di Betlemme!
- E’ vero Giosuè! – rispose Ismaele – Ma se le scritture vanno prese alla lettera, come dice Matteo, una stella o una cometa che fosse, era il segno della Luce che stava arrivando nel mondo – detto questo riprese a camminare con passo ancora più spedito – E noi ne siamo protagonisti.