Da bambina ero particolarmente timida, non prendevo mai la parola. Durante le recite scolastiche mi nascondevo dietro ai miei compagni, quando volevo fare una qualsiasi domanda ci pensavo così tanto prima di farla che finivo di non farla più, o comunque se avessi trovato il coraggio di parlare non sarebbe stato senza il tremolio della voce. Non so cosa è cambiato, crescendo, ma la curiosità estrema che mi è sempre appartenuta ha preso il sopravvento, il desiderio di scoprire è diventato più forte delle mie paure. Così ho fatto molti incontri che mi hanno sempre lasciato qualcosa e ne sono davvero grata. Uno di questi è capitato sulla tratta di FlixBus Roma – San Benedetto del Tronto di un sabato sera di ottobre, mentre stavo tornando a casa.
Appena salita sul pullman ero già pronta a dedicarmi al mio libro in lettura, ma subito vengo attirata dalla conversazione che stavano avendo dei ragazzi seduti davanti a me e mi intrometto chiedendo se potessi dire la mia: in questo modo ho avuto il piacere di conoscere Marco, Valeria e Lucas, tre giovani artisti che scopro diretti anche loro a San Benedetto in occasione di un evento che si sarebbe tenuto il giorno dopo, Vuoti D’Aria, al cineteatro di San Filippo Neri. Al quale, subito, mi hanno invitato.
Il giorno dello spettacolo, la domenica pomeriggio del 23 ottobre, mi reco in anticipo sul luogo per conoscerli meglio e per saperne di più sull’evento, di cui non sapevo nulla.
Vuoti D’Aria – mi spiegano gli organizzatori Federico Ruiz, Michele Petrocchi e Chiara Santarelli – è una vetrina di arte performativa contemporanea che ogni anno si offre di scovare talenti esordienti tramite un bando pubblico grazie al quale gli artisti si propongono e si sottopongono alla selezione.
In Italia vetrine come questa non se ne vedono se non pochissime. Quella di quest’anno è stata la quinta edizione, la prima con il sostegno della regione Marche, oltre che dalla compagnia Caleidoscopio APS di Grottammare, dalla fondazione Carisap e dal progetto Viridee. In cinque anni hanno partecipato quasi cinquanta compagnie di tutta Italia e gli artisti vincitori tra queste, successivamente, sono entrati a far parte del palinsesto del teatro di San Filippo.
Un’idea funzionale alla scoperta del mondo del teatro e alla promozione delle arti performative per una città che sempre di più necessita di stimoli culturali, soprattutto da parte dei giovani e per i giovani.
Questa edizione si è svolta in tre serate, dal 21 al 23 ottobre, ciascuna con un tema diverso: teatro contemporaneo, danza d’autore e teatro-danza. In quest’ultima si sono esibiti anche i miei nuovi amici.
Lucas Monteiro Delfino (34 anni) è nato in Brasile ed è in Italia da sette anni, giunto qui per completare la sua formazione artistica in danza, iniziata già dall’adolescenza. Vive ora a Bologna dove principalmente lavora, così come Angela Valeria Russo (32 anni), però abruzzese di nascita, che si è formata e diplomata alla RAD Royal Academy di Londra e specializzata alla Art Factory International di Bologna, la stessa di Lucas. Dopo la laurea al DAMS di Bologna sta ampliando le sue conoscenze con un master di antropologia all’università di Udine.
Marco Caredda (35 anni) invece suona da quando aveva cinque anni e mezzo le percussioni. A 17 anni si iscrive al conservatorio per rendere la cosa professionale: percussioni classiche, batteria jazz e direzione d’orchestra. Insegna oggi al liceo artistico musicale di Cagliari.
Le storie di questi tre ragazzi si sono incrociate nella compagnia ASMED – Balletto di Sardegna.
A giugno 2021 la prima tappa con la versione attuale dello spettacolo, messa a punto poco prima del grande lockdown di marzo 2020. Quest’anno, invece, sono partiti in tour da aprile e la serata da noi, a San Benedetto, è stata l’ultima.
Lo spettacolo racconta di un antico spadaccino giapponese, Zatoychi, che si sdoppia in due personalità – Zatò e Ychì – uomo e donna, che lottano fino allo stremo delle forze, in una danza incessante e vorticosa.
Essendo parte della stessa persona, è una lotta in realtà contro sé stessi, finalizzata alla ricerca di un equilibro, una tregua, una nuova riappacificazione. Forse non sanno contro chi e cosa stanno combattendo, come Tancredi e Clorinda della Gerusalemme liberata del Tasso, amanti ma di fazioni avverse, lui cristiano, lei pagana. Quando Clorinda è sul punto di morte, Tancredi scopre l’identità mascherata della donna e si dispera.
Anche quella tra Zatò e Ychì è una lotta tra due amanti? Non lo sapremo mai. Sicuramente tra i due c’è una connessione intensa. Si cercano continuamente e spasmodicamente tentano di riavvicinarsi, ma sembra che non possano tollerare una vicinanza per più di qualche minuto.
Si scrutano da lontano, misurano le distanze. A volte sembrano aver trovato un accordo di pace e danzano insieme. Sebbene in lotta, hanno l’uno bisogno dell’altro. Insieme si tolgono le armature e tornano ad assomigliarsi, parte di una medesima essenza.
Per tre volte duellano, a fine di ogni tempo sembra che sia davvero finita, ma non finisce mai. Una perpetua danza di morte e rinascita.
Questo, in fondo, è quello che spetta ad ognuno di noi: cambiare continuamente la pelle, spogliarci ogni volta degli schemi che ci siamo costruiti, per rinnovarci continuamente. Guardarci dentro e scoprirci, con orrore, sdoppiati. Cosa si fa? Si lotta.
Che cos’è Balletto di Sardegna?
“Siamo negli anni 80, Paola Leoni, una danzatrice, fonda questo gruppo di danzatori, che all’epoca erano tutti sardi. Adesso il direttore artistico è suo nipote, Massimiliano Leoni, che lavorava con lei già da piccolo aiutandola nella organizzazione di eventi e nella parte tecnico organizzativa“.
Valeria: “Ad oggi Balletto di Sardegna prende i fondi dal ministero, in quanto compagnia di danza, e anche dalla ragione Sardegna. Si propone soprattutto di dare spazio a diversi coreografi, non ha una figura fissa, ma orbitano al suo interno diversi coreografi, registri di teatro e giovani autori, sia sardi che no“.
Lucas: “Come il caso mio e di Valeria, che viviamo a Bologna ma collaboriamo con loro da tre anni, quasi quattro“.
Marco: “Io invece lavoro con loro dal 2014“.
Siete quindi un bel gruppo eterogeneo…
V: “Si, la compagnia si chiama infatti di musica e danza. ASMED sta per questo: associazione sarda di musica e danza. Non si occupa solo di danza e infatti il regista del nostro spettacolo, Senio Giovanni Barbaro Dattena, è un regista di teatro, così come ASMED si occupa di teatro per ragazzi, con una attenzione alla musica tradizionale anche“.
M: “Quindi c’è una attenzione particolare alla danza, sì, ma non è quasi mai l’unica componente. Io lavoro con loro, appunto, come musicista”.
L: “C’è questa caratteristica di intersezione tra le discipline. Noi lavoriamo nel mondo della danza, il nostro regista nel teatro. Poi c’è la musica…“.
V: “...si, che ha un ruolo importante. I nostri costumi, ad esempio, suonano“.
L: “Se possiamo entrare già nel merito dello spettacolo, nasce dall’intersezione tra teatro e musica. Il regista ha ideato questi costumi interattivi…”
M: “Io ho fatto parte della prima versione dello spettacolo due anni fa, eravamo due percussionisti e non uno, come oggi. Praticamente suonavamo sopra al costume che indossavamo, che era il nostro strumento“.
V: “Adesso sono i danzatori a vestire i costumi. Se prima il musicista suonava attivamente il costume, oggi il costume suona grazie al movimento della danza e del corpo“.
L: “Chiaramente non è tutto casuale, anche noi cerchiamo di dare un’armonia al suono, infatti, come si vedrà, suoniamo sui costumi con le bacchette“.
E te Marco? Non ti si vede?
M: “No, io rimango in regia, questo è un cambiamento perché prima, come dicevamo, eravamo due percussionisti e anche in scena. Siccome da due anni si è dovuto esportare il progetto, occorreva che avessimo una musica elettronica già registrata, in parte fissa, poi ampliata da me in loco con le percussioni durante lo spettacolo“.
Chi è che ha dettato un ritmo? Tu, il regista, o chi altro?
M: “No, è stata una nostra ricerca. La musica nasce dall’incontro coi costumi stessi, improvvisando a partire da altri input del regista, che ha organizzato le scene“.
L: “Zatoychi era un personaggio leggendario, uno spadaccino giapponese, che in questo spettacolo si sdoppia in me e Valeria, che combattiamo dall’inizio alla fine. Quindi la musica è il risultato di questo combattimento“.
Vorrei ora chiedervi due cose. È nata prima la storia o la musica? E poi, su quali fronti viene svolta questa lotta?
V: “Prima sicuramente i costumi, che non erano quelli che vedrai stasera. Questi costumi sono stati vestiti da diverse figure. Nel nostro caso è nata prima l’azione scenica, come gestirci i costumi e farli suonare. La drammaturgia ci è stata raccontata dal regista come se fosse un immaginario. L’azione è una lotta. Zatoychi è un samurai cieco, quindi gli altri suoi sensi sono ampliati. La lotta è anche un guardarsi dentro“.
L: “La lotta è fisica ma si aprono moltissime letture: una lotta interiore di una personalità raddoppiata, una lotta tra uomo e donna…“
V: “Ognuno di noi ha dentro di sé una parte femminile e una maschile…“.
L: “Può essere una ricerca di un equilibrio“.
E il vostro regista come la intende?
M: “Non c’è una narrazione univoca, è una questione che rimane aperta.”
E voi come la interpretate?
V: “Sicuramente a livello fisico, perché concretamente lottiamo. Questa è una lotta che deve portare allo sfinimento. Per un periodo abbiamo messo un sottotitolo: Zatò e Ychì fino alla fine. Io ci vedo il maschile e il femminile nella società che da sempre si combattono e non riescono a trovare un equilibrio solido. C’è poi la ricerca di un equilibrio interiore che personalmente sento molto. Credo che debba partire da dentro di noi per poi espandersi nella società“.
L: “E’ oggettivamente una lotta stancante fisicamente, dura, che però contrasta anche con la leggerezza. Non è una storia drammatica, a tratti può apparire comica“.
Si capisce alla fine chi è che vince o anche qui la questione rimane aperta?
V, L: “No. Ci siamo interrogati insieme e alla fine abbiamo deciso che entrambi si accasciano a terra dopo il colpo finale. Sono tre round, ma l’ultimo messo in scena potrebbe anche essere il penultimo. Termina una lotta ma non la guerra. Una fine non fine. Durante la scena finale siamo a terra, ma non si capisce se siamo morti“.
Sono curiosa di vedere quali sono accompagnano questa scena fiale.
M: “Nota, ad esempio, il respiro o suoni di animali…“.
E tu preferisci stare in scena o dietro le quinte?
M: “Preferisco ora, perché prima la gamma dei suoni era limitata, ora potendola registrare ho più libertà e varietà e dal punto di vista musicale c’è completezza. Per me è come se fosse la colonna sonora“.
A proposito di dualità come si sposano questi due mondi – danza e musica – con il teatro?
V: “Con il corso di formazione a Bologna abbiamo perfezionato la danza contemporanea e le arti performative, improvvisazione e sono entrati elementi di intersezione tra teatro e danza, come il suono della voce. Quindi per noi non è stata una novità, ma rimane comunque uno stimolo ad andare oltre la nostra formazione base. La danza contemporanea ad oggi è un mix di discipline“.
M: “Io invece mi sono approcciato anche al teatro dal momento in cui ho conosciuto il regista, Senio, che mi ha messo in mezzo a questo tipo di cose che all’inizio mi sembravano folli. Aveva fatto costruire per me il primo vestito di pentole che io dovevo suonare indossandolo. Da quell’idea siamo poi arrivati a Zatò e Ychì in otto anni. Il teatro in tutto questo funge da collante“.
Ringrazio Marco, Valeria e Lucas, che hanno avuto sincera voglia di parlare di sé e di accompagnarmi dentro il loro spettacolo. Ringrazio lo staff del teatro San Filippo Neri che ha dimostrato passione e entusiasmo, oltre che infinita accoglienza, per il mondo dell’arte performativa, che sempre inscena qualcosa che profondamente ci appartiene.
Mi ha colpito la risposta alla domanda “Che cos’è Vuoti d’aria?”: un respiro nato dal disequilibrio che colma il vuoto mentre si assiste ad una forte e sconvolgente espressione artistica.
A volte, purtroppo, dimentichiamo che l’arte ha questo magico potere di mettere in disordine i punti fermi dentro di noi per poi ricomporli. Quello che si crea nel mezzo è un vuoto che soltanto l’arte può colmare, così come lo ha creato
Chiara Santarelli, che ha presentato, saluta augurando a tutti i presenti di assistere a molti altri vuoti d’aria nel corso della vita.