“Riprendendo quello che ti stavo dicendo prima che iniziassi a registrare… scusa, mi viene da ridere perché devo superare l’imbarazzo di non essere anche attrice”. Oggi siamo all’interno dello storico Caffè Meletti di Ascoli Piceno, affacciato sul salotto cittadino di Piazza del Popolo. Sorseggiando un Melettino, lo speciale caffè con crema all’Anisetta, siamo immersi in un mondo popolato da personaggi come Ernest Hemingway, Renato Guttuso, Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir. A farci compagnia al nostro tavolino non sono, però, loro ma Laura Guerrieri, che trovate su Instagram come @editing_onpoint: no, non è effettivamente un’attrice, ma si occupa di cultura e state per scoprire in che modo!
La scrittura è il filo conduttore della tua esperienza, mi sembra di aver capito.
“Sì, ho deciso che il mio futuro sarebbe stato questo quando avevo sei anni. Sono attiva nella scrittura per il teatro, per il cinema e nella narrativa. Tre linguaggi diversissimi fra loro. Il teatro è una drammaturgia orale, qualcosa che comunichi con la voce, ritmo; è una scrittura che si appoggia a una persona in carne e ossa; devi essere sperimentale, devi trasmettere emozioni che arrivano in maniera diretta e istintiva. Il cinema è una scrittura per immagini, lo percepisci come un montaggio di scene; il dialogo è l’ultima cosa che scrivi perché parti da ciò che vedi, su quello si sostiene tutta l’impalcatura di un film. Non saprei dire se preferisco l’uno o l’altro linguaggio. Posso dire che, a livello autoriale, il teatro permette di lavorare molto sull’intimità del personaggio con la parola, nella cinematografia puoi lavorare molto sulle immagini e sulle storie”.
E per quanto riguarda la narrativa?
“Ho pubblicato il mio primo racconto a 17 anni. Ero molto impreparata in quel mio primo approccio… Un battesimo di fuoco che mi ha bloccato per parecchio, non sapendo come andare avanti. Ho ripreso a scriverne solo molto tempo dopo e ho ricominciato a pubblicare su riviste come Marvin che, voglio sottolinearlo, ha una redazione eccezionale. Oggi alla me diciassettenne darei dei consigli, il primo: il tempo non è la cosa più importante se si parla di scrittura, metterci tempo è normale, bisogna considerare la propria opera a lungo come non finita; la fatica è una parte fondamentale del percorso. La persona che ero a quell’età, peraltro, è proprio la persona a cui mi rivolgo oggi con il mio lavoro”.
Esatto, oltre a essere autrice in prima persona, di che cosa ti occupi?
“Per dirlo con una parola, sono una editor. Si tratta di una figura professionale che si occupa della revisione del tuo testo. E questo vuol dire editing strutturale, ovvero il prendersi cura di tutto quello che riguarda la scrittura (buchi di trama, ambientazione, personaggi, stile, tensione, costruzione dei capitoli, ecc.); e poi l’editing formale (impaginazione, refusi, sintassi, ecc.). Personalmente concepisco il mio lavoro anche come un vero e proprio accompagnamento dell’autore. Può iniziare da quando si comincia ad avere un’idea e poi si affina il tutto con call periodiche e feedback continui (‘l’idea funziona, perché non la sviluppi?’ oppure ‘No, questa cosa non regge’). Se uno si trova completamente immerso in ciò che pensa, gli occorre una persona che faccia un po’ da cartina di tornasole. Io stessa, se scrivessi qualcosa, mi rivolgerei a un editor. Ma tu Giorgio, se per caso stai pensando di scrivere qualcosa, ricordati che c’è Laura!”.
L’offerta è allettante ma… non ho ancora nulla che mi passi davvero per la testa. Se mi venisse un’idea come ti contatto?
“Se facciamo finta che io non ti abbia dato il mio numero poco fa, avresti il mio profilo Instagram professionale. Lo trovo molto utile perché puoi seguire il mio lavoro per un po’, vedere il mio metodo e poi semmai pensare di contattarmi. Poi c’è il mio sito, con tutti i dettagli. Ho notato, comunque, che conta davvero tanto il passaparola. La soddisfazione dei clienti è il miglior biglietto da visita. Mi viene da sottolineare, poi, una cosa: un editor più giovane e meno famoso, quindi con prezzi più accessibili, può fare lavori di grande qualità. E questo può essere molto incoraggiante per chi si affaccia a questo settore: molto sta nella relazione di fiducia fra autore e editor, al di là dei grandi numeri e della fama”.
Quando hai iniziato a farlo?
Con la pandemia, e il relativo fermo delle attività, mi è venuta quest’idea e ho cercato di realizzarla. Volevo offrire alla persone un aiuto professionale per lo sviluppo della loro storia. Un intervento che comprendesse anche una speciale attenzione verso la realtà esterna a cui ci si rivolge. Io seguo clienti di vario tipo, da chi lavora in Rai, fino a ragazzi che hanno appena finito il liceo e stanno iniziando Lettere all’università. Molti abbandonano gli studi perché non credono in loro stessi, perché pensano di non avere reali possibilità di vivere di alcune tipologie di lavori. Altri mantengono la scrittura a livello di semplice hobby, che va benissimo, ma solo se è una scelta libera e non una costrizione. Nella società della prestazione si connette lo scrivere solo a un’idea di successo: se non è spendibile sul mercato, non serve a nulla. E questo non solo è falso, perché sul mercato la richiesta c’è, ma perché scrivere ha un grandissimo valore! Un valore che va protetto e nutrito”.
Spiegami meglio, perché?
“Se ti centri sulle motivazioni e sul valore che quell’atto ha, hai già una risposta del perché lo fai e del perché vale la pena farlo. Io tengo molto a una speranza costruttiva: quanto è facile chiudere, distruggere, quanto è difficile invece seminare, fare piccoli passi; ci si aspetta di raggiungere in poco tempo dei cambiamenti di vita radicali, ma sono i piccoli passi che portano i cambiamenti più radicati, duraturi e sostenibili nel tempo. Troppo spesso chi scrive non ha la consapevolezza della potenza della propria voce. Scrivere, invece, è una posizione radicale nei confronti della vita; scrivere rivela la tua visione del mondo; scrivere significa dar forma alla tua interiorità. Cos’è se non un modo di navigare le difficoltà a livello individuale e collettivo, un modo di organizzarti, di strutturarti, di orientare il tuo pensiero: non sono cose di cui fai uso di continuo nella vita? Come si può dire che non hanno valore? Chiunque scrive non deve necessariamente diventare uno scrittore, ma scrivere ha un suo valore intrinseco. Per questo è importante che i più giovani vedano adulti che credono in loro. E poi servono figure, come la mia, che facciano da solido collegamento con il mercato del lavoro”.
Come si può trovare il proprio posto sul mercato?
Solo dalla consapevolezza di quanto dicevo nasce una reale possibilità di scelta, da cui ripartire. Ripartire e strutturarsi, con costanza, costruendo una routine, dandosi un obiettivo, avendo una strategia e… rivolgendosi a figure come me. Ho notato un vero vuoto nella connessione fra chi scrive e chi produce. E, se chi scrive non conosce le possibilità che ha, la sua opera resta nel cassetto. Il talento non basta, va coltivato e valorizzato o altrimenti resta chiuso nella propria stanzetta. Io, a 24 anni, avrei voluto che qualcuno mi avesse detto: ‘Questi sono i sacrifici che devi compiere per arrivare lì, oppure, questa è la struttura che ti devi dare. Non formule magiche tipo: ‘Fai questo e avrai successo’, ma una profonda consapevolezza del mondo a cui ti rivolgi”.
Dal punto di vista pratico?
“Per avere una sostenibilità, bisogna crearsi delle strutture. A livello proprio pratico, per ricevere soldi devi avere un conto in banca, per poter fare fattura devi avere una partita Iva, per poter essere tutelato devi fare un contratto. Io, le prime forme di contratto di opzione, le ho scoperte al momento della firma con case di produzione cinematografica. Se tu non crei una struttura adatta alla ricezione del tuo valore, non hai modo di incanalare ciò che chiedi e vuoi ricevere. Non voglio dire che se ti impegni ce la fai: lo trovo un discorso anche tossico. Se ti impegni e i canali di comunicazione con le realtà produttive sono efficaci e sono garantiti da un impegno collettivo… hai la possibilità di avere successo. Se vuoi scrivere un film bellissimo, devi prima darti la struttura per scriverlo: saper scrivere soggetto, trattamento, scaletta e sceneggiatura e poi avere consapevolezza di come funzionano i contratti e di come proporti a una casa di produzione. Io tutto questo l’ho appreso tramite la mia esperienza. Mentre troppo spesso vedo che non ci si dà una struttura, non si investe in formazione ecc. Se non ti dai un percorso step by step, fatto di tempo e impegno, se non investi per capire se narrativamente la tua storia funziona, se non ti fai una conoscenza approfondita del tuo settore d’interesse.. ti limiti a provare quando in realtà potresti riuscire”.
Come hai acquisito nel tempo queste competenze che ora puoi offrire ai tuoi clienti?
“In modo apparentemente paradossale, sono partita dal frequentare il liceo scientifico. Se voglio fare della scrittura il mio lavoro, mi ero detta prima di iscrivermici, devo avere una preparazione anche sulla matematica e le materie scientifiche perché poi all’università mi volgerò verso altro. Il settore scientifico è interessantissimo e mi piace, dai pianeti e l’universo alla matematica: tutto fa parte delle storie. Nel raccontare mostri ciò che vedi, nella sua totalità. Certo, diceva Gadda, si possono tagliare le reti e staccare qualcosa dallo sfondo, ma questo non vuol dire mettersi dei paraocchi. La curiosità è la base di tutto. Dopo di che, sempre al liceo, ho avuto un’insegnante di Italiano straordinaria come Virginia Baroni: la sua era una visione veramente globale della scrittura e mi ha molto ispirata. A quell’età un docente può fare davvero la differenza, certo anche ad altre età figure d’ispirazione sono importanti, ma per un adolescente sono fondamentali”.
E poi all’università?
“Mi sono laureata in Filologia Moderna alla Sapienza, per poi proseguire la mia formazione studiando drammaturgia e sceneggiatura per il cinema e per il fumetto all’Accademia d’Arte Drammatica ‘Silvio d’Amico’, sempre a Roma. È stato questo master che mi ha permesso di accedere al mondo in cui volevo lavorare ed è stato bellissimo. La cosa migliore è stata lavorare con degli insegnanti che mi hanno fatto fare cose pratiche, ovvero scrivere: bene la teoria, ma bisogna soprattutto scrivere. Ed è quello che propongo ai miei clienti: ‘Scrivi intanto, poi ci si lavora, ma intanto inizia’. Lì mi hanno insegnato a superare l’imbarazzo della pagina bianca. Se c’è qualcosa che non ti piace, c’è sempre tempo di cambiarla e aggiustarla. Inoltre, il rapporto con la mia classe è stato meraviglioso: siamo stati colleghi e amici. A livello tecnico, alla Silvio D’Amico vieni orientato più verso il teatro, anche se avevamo un docente d’eccezione come Ugo Chiti, lo sceneggiatore di Matteo Garrone. Però, certamente, il Centro Sperimentale di Cinematografia è più specializzato. Prima di fare domanda per entrare, è importante sapere bene cosa si vuole trarre dall’esperienza”.
Prima di approfondire le tue attività nell’ambito della scrittura, c’è stata qualche altra esperienza che ti ha formato particolarmente?
“Sono stata a lavorare in Inghilterra come insegnante di italiano alla Dante Alighieri di Cambridge. L’obiettivo era farmi dell’esperienza lavorativa con la lingua: è stata bellissima, mi ha dato tanto e dico a chiunque abbia la possibilità di vivere fuori dalla propria comfort zone di farlo. E questo significa non soltanto all’estero, ma anche in un’altra città italiana. Nelle fasi di discomfort si cresce: quando senti vergogna, imbarazzo, quando ti dici: ‘Oddio non lo so fare… Fa schifo, ecc.’, allora hai la cartina di tornasole che stai crescendo, che stai provando a fare qualcosa che non hai mai fatto prima. Se ti senti sempre completamente competente, non fai mai quel passettino che ti fa crescere: rimani dove sei. E può essere molto soddisfacente a una diversa età, ma non quando sei molto giovane e hai ancora tanto da scoprire”.
Attualmente, invece, come autrice a che cosa ti stai dedicando?
“In questo momento ho delle opzioni aperte nel cinema, di cui per ovvi motivi non posso parlare. Ti racconto qualcosa di quello che ho già fatto. Ad esempio, vinsi – dopo un’application – la possibilità di realizzare il mio corto. Ho avuto così l’opportunità di avere la supervisione alla sceneggiatura di Francesca Archibugi (che è la sceneggiatrice di Paolo Virzì). Abbiamo girato a Piazza di Spagna in locali affittati dalla produzione. Per me è stata una prima esperienza nel mondo del cinema: avevo fra gli attori Sergio Pierattini, Monica Piseddu (che a me piace tantissimo). È stato davvero importante stare sul set a guardare. A fine giornata, poi, andavamo a rivedere il girato in un piccolo cinema della zona e stavo lì a sentire il regista che commentava con gli altri tutti i vari take di una scena: vedere che quello che hai scritto ha preso forma e viene commentato per me è stato emozionante; vedere le persone reali che diventano quella cosa che avevi nel cassetto. È stato utilissimo rendersi conto della realizzazione di un film, osservare come i reparti collaborano fra di loro. Lo sceneggiatore scrive, ma occorre capire cosa si può e non si può realizzare su un set”.
E con il teatro?
“In realtà io sono proprio partita con il teatro, ma poi con la pandemia quel settore è stato particolarmente toccato. I teatri hanno sofferto tantissimo e, anche se ora hanno ripreso, resta tanto da fare. In ogni caso i miei lavori sono andati in scena allo Spazio 18b, al Teatro India, al Teatro Valle. Ci tengo in particolare a citare lo spettacolo con cui ho vinto il premio Marchesini nell’ambito del Piano nazionale delle Arti. Lì si confrontavano le scuole teatrali italiane e io vi accedevo grazie alla Silvio D’Amico. Ognuno portava una parte breve del proprio spettacolo di fronte a una giuria fatta dai grandi nomi del settore: chi vinceva, otteneva la produzione dello spettacolo. Il mio era ispirato proprio ad Anna Marchesini, una donna che ammiro tantissimo, di cui ho letto tanto, di cui ho visto tutti gli spettacoli. La sua è una comicità intelligentissima, che dà voce a personaggi femminili in maniera ironica ma molto collegata al popolo: una comicità collettiva che sa parlare a tutti. La protagonista del mio spettacolo è una donna, che parla della sua vita in maniera comica ma, ovviamente, sotto c’è la paura, l’amarezza, l’irrisolto. Portandolo in vari teatri, ho avuto l’occasione di lavorare con un’attrice che adoro, Evelina Rosselli, con cui siamo rimaste amiche”.
TI ho beccata ad Ascoli per le elezioni, ma ora sei basata a Roma, vero?
“Sì, esatto. Anche se non escludo spostarmi in altre città. Sono qui perché qui ho studiato, qui ho i contatti. Anche ad Ascoli sarebbe bello far partire qualcosa di veramente potente, che riguardi i giovani, che costruisca nuove opportunità. Tengo moltissimo alla nostra città. Quello che conta è costruire delle strutture, ad Ascoli, a Roma o altrove, che permettano una sostenibilità di progetti o idee. Ogni città ha dei vissuti sociali e tu vai a inserirti in un tessuto che preesiste: la prima cosa che devi fare è ascoltarlo per poter offrire qualcosa che quel tessuto recepisca. Non si può fare tutto, tutto insieme. I terreni però, se ascoltati, sanno essere fertili. Ma tu che sei qui e hai questa capacità aggregativa che ci ha portato qui, perché non ti metti in moto?”.
Ci sto provando, anche se non è facile fra chi viene, chi va, chi resta.
“No, certo. Lo capisco. Io credo un approccio autentico alla scrittura, senza cercare un’immagine di te che piacerà agli altri. Per questo ho imparato a capire le persone. In te vedo una notevole rabbia, ma costruttiva. E ce n’è bisogno. Ammiro la tua esperienza come docente. Io forse sono sembrata troppo ottimista in questa intervista? Le storture di questa società sono tantissime, è impossibile negarlo e riguardano non soltanto il settore culturale. Anzi. Affitti altissimi, impossibilità di mutui o di casa (se non per eredità), gerontocrazia, distribuzione di ricchezza assolutamente diseguale e così via. È fondamentale riappropriarsi di un discorso collettivo: nessuno è nemico di nessun altro. Non dobbiamo farci distrarre in disastrose guerre fra poveri: lo sfruttamento è trasversale. Guardiamo la struttura, capiamo come funziona il lavoro, come funziona la società e cambiamo tutto. Sembrerà utopico, ma si deve tirare più in alto di dove si arriva per poter pensare di progredire. Mettiamoci in cammino, collettivamente: nessuno mi convincerà mai che non sia possibile”.
Come concludiamo?
“Occorre provare a sviluppare il meglio di noi, ma non come ce lo vendono, ovvero avendo più successo o vedendo solo le parti più positive di sé. Ci vuole consapevolezza di quello che va e di quello che non va, c’è bisogno di entrambe le nostre parti: solo così siamo interi e solo così possiamo portare il nostro miglior tentativo. Quando portiamo nella società il nostro intero, allora possiamo fare la differenza e provare a cambiare le cose. Se non abbiamo questa consapevolezza, il nostro tentativo è già depotenziato”.