“’Ma sei ancora uno studente, quand’è che ti laurei?’ Questa la risposta per una mia idea progettuale. Il fatto, però, è che io apro il libro e dopo un po’, invariabilmente, lo chiudo per mettermi a disegnare (e il ritardo si accumula)”. André Benedetto non è pittore accademico di formazione, ma lo è di fatto. Per scelta. Fin da piccolo il disegno è il suo compagno di viaggio, da autodidatta. Dopo la maturità classica, ha svolto vari lavori fino a diventare tatuatore e oggi si cimenta con la tela. Nel frattempo, frequenta il corso di laurea in Tecnologie innovative per i beni culturali dell’Unicam di Ascoli Piceno.
Com’è nata questa passione per l’arte?
“Possiamo dire che ci sono nato dentro. Mia madre è una maiolicara: Ascoli, infatti, fa parte di quel ristretto gruppo di città di antica tradizione ceramica. Sono cresciuto nel suo laboratorio, vedendo lei dipingere mentre io disegnavo. Come tutti i bambini disegnavo alle elementari, come tutti i ragazzini fannulloni disegnavo anche alle medie, invece di studiare… I miei soggetti erano i cartoni animati o, più particolarmente, i manga giapponesi. Dalla loro attenzione ai volti è forse nato il mio interesse per la ritrattistica, mentre mi sono scarsamente dedicato ai paesaggi e all’astratto”.
Ti sei pentito di aver frequentato il liceo classico?
“Assolutamente no! Anche se sono cambiate le ragioni per cui lo risceglierei. All’epoca, molto banalmente, mi attirava la settimana corta… Oggi, invece, riconosco l’apertura mentale che mi ha dato. Mi ha donato la capacità di ragionare, mi ha dato un ricco bagaglio costituito dalla cultura classica su cui fondo oggi un livello più profondo di comprensione dell’arte. Più sai, più sai cogliere il dettaglio. Dopo di che, con il latino e il greco, sono sopravvissuto a fatica nel triennio. Nella seconda prova dell’esame di maturità ho ottenuto 5 su 15, per dire, ma poi ho sempre recuperato grazie agli ottimi risultati nelle altre materie. Comunque non mi dispiaceva la letteratura classica (il problema era la traduzione) che apprezzo ancor di più oggi cogliendone l’intensa attualità”.
Come sei arrivato da lì all’arte come mestiere?
“Al liceo ancora non sapevo nulla, assorbivo e disegnavo. Ma poi non lo so nemmeno ora se riuscirà a diventare un lavoro. Ho iniziato come tatuatore. Lavoravo in fabbrica all’epoca e, nei tempi morti, disegnavo. I colleghi ogni volta: ‘Oh, bello! Me lo tatui?’. E io rispondevo che non facevo tatuaggi e gli davo il disegno per farselo realizzare… All’ennesima richiesta, mi sono detto: facciamolo. Era il 2014 e ho iniziato prima da Ivan qui ad Ascoli e poi da Mosquito a Castel di Lama. Se già prima della pandemia si lavorava poco, però, il Covid19 è stato il colpo di grazia. Si poteva accogliere su prenotazione un cliente alla volta, dove prima c’erano in azione quattro tatuatori. In generale si tratta di un mestiere remunerativo solo se hai il tuo studio, in cui accogli altri tatuatori. Ci vuole una mentalità imprenditoriale e la disponibilità per farlo, come Mosquito che ha aperto altre filiali altrove. Altrimenti fra le spese della partita Iva, la percentuale da dare allo studio che ti ospita e la spietata concorrenza… Senza contare che magari arriva il cliente che ti chiede un disegno e poi se lo fa realizzare da qualcuno che tatua a casa e lo paghi in sigarette. Non c’è rispetto, spesso. Ne parlavo con Elisa Seitzinger, l’illustratrice di cui abbiamo al momento una bellissima personale al Forte Malatesta: si appropriano di continuo di disegni suoi che poi vengono fatti passare per propri lavori da tatuare”.
Un problema di tutti i lavori creativi, mi piace sempre ricordare la campagna #coglioneno di qualche anno fa. E la pittura paga?
“Beh, diciamo che ho alcune commissioni. Mi faccio pagare sempre. Anche perché per il tipo di quadri che realizzo il tempo e lo studio che ci sono dietro non sono indifferenti, non è qualcosa che faccio in automatico e/o in serie. Certamente, mi aiuta molto la presenza sui social: sono ormai imprescindibili per farsi conoscere e ricevere commesse. Ma non può mancare una certa presenza offline, a novembre ho realizzato la mia prima personale nella Sala Cola dell’Amatrice ad Ascoli. C’erano i miei quadri, intervallati dalle poesie di Andrea Cipollini. La prossima volta aggiungerei anche altri elementi d’arredo per incuriosire i visitatori. Comunque, a breve sono stato contattato per una collettiva a Lanciano e altre ne ho fatte e ne sto facendo. Di certo è importante far conoscere le proprie opere, non ha senso tenerle ammucchiate a casa propria”.
Com’è stato il passaggio dal tatuaggio alla pittura?
“Nel 2017 mi sono messo a dipingere, iscrivendomi poi all’università dopo la pandemia. La pelle di una persona come supporto dà delle soddisfazioni, ma il committente lascia – come è ovvio – ben poca libertà espressiva. La tela mi permette di fare di più ciò che piace a me. Anche se quello che mi piace non è forse quanto richiede il mercato. Mi sto avvicinando, infatti, a uno stile più antico, proprio quello che mi ero detto che non avrei mai fatto. Volevo fare Van Gogh e ora invece le mie (inarrivabili) fonti di ispirazione le trovo fra il XV e il XVII sec. Includo anche il manierismo, quella generazione che dopo i grandi del secolo precedente si trovarono in crisi e allora trovarono il loro modo per rompere la tradizione (non è solo l’arte moderna a essere di rottura!). Non che in seguito (XVIII-XIX sec.) non siano a livelli tecnici elevati, ma mi annoiano a livello di emozioni”.
Mi sembra di intuire che l’arte contemporanea non sia troppo il tuo genere.
“L’altro giorno Flavia Guerrieri mi diceva: ‘Il classico ti ha rovinato’. Lei è una grande esperta d’arte, ma la nostra visione è opposta. Scherzando ha aggiunto: ‘Tu non vendi perché le persone cercano oggetti d’arte che arredino le case contemporanee, che sono molto lineari e geometriche’. Io ritengo che oggi molti si dedichino all’astratto perché è la via più breve: così ci si può dichiarare subito veri artisti. Non serve impegno, non serve padroneggiare tecniche particolari: non puoi scegliere di fare altro, per te c’è solo quello. Insomma, tanti iniziano facendo imitazioni di Pollock, continuano facendo imitazioni di Pollock e finiscono facendo imitazioni di Pollock. Picasso era un accademico e poi ha rotto le regole. ‘Una volta disegnavo come Raffaello, ma mi ci è voluta una vita intera per disegnare come i bambini’. Quelli che sono venuti dopo si sono detti che le regole non servono e quindi non vale la pena studiarle.”.
Tu, invece, come stai lavorando?
“Io tanto tanto tempo fa provai con la maiolica. Misi troppa acqua sul pennello e rovinai tutto lo smalto che, prima della cottura, è polveroso, come sai. Beh, da allora non avevo più pensato di prendere in mano nessun pennello. Ho iniziato, quindi, per usare le parole che mi ha regalato Stefano Papetti con: ‘Un impasto molto denso che la spatola segna di profonde rughe che reagiscono alla luce creando effetti di sorprendente efficacia espressiva’. Mentre ora, finalmente, mi sto divertendo con il pennello. Ho in lettura il De pictura di Leonardo e cerco di assorbire la tecnica. Poi vado a lezione all’università e mi ispiro con simbologie, storie, stili. Poi apro Youtube e guardo i tutorial. E poi sperimento, con lentezza, come insegna Leonardo. Lui metteva le mani avanti: la cosa migliore per un artista è essere molto critico sulle sue opere perché ne farà pochissime ma tutti si gireranno a rimirarle. Ultimamente sto allontanandomi dal ritratto per comunicare di più, attraverso anatomie, scene di gruppo e anche paesaggi”.
Come sei arrivato a questa concezione?
“Ho studiato storia dell’arte e mi si è aperto un mondo. La colpa, quindi, è almeno in parte del professor Papetti: ti fa appassionare a quello di cui è appassionato. E non nasconde di essere un passatista. Mi ricordo all’inaugurazione di una mostra di ceramiche contemporanee: ‘Spesso la gente va nelle mostre di arte contemporanea e dice: ‘Bello, bello’, anche se non hanno capito nulla, per non essere da meno rispetto agli altri. E questo per colpa dei critici d’arte che usano spesso termini stranieri per ammantare di fumo una confusione che hanno loro stessi, per primi, sulla materia’. Io, poi, di fronte a questa libera interpretazione che diventa: ‘Io ho fatto questo e vedi tu che significato dargli…’. Non mi ci ritrovo proprio. Mi piace troppo quello che l’arte precedente ha da offrirci.
E cosa ci offre?
“Ora mi vengono in mente le sue complesse simbologie. L’immagine non è solo quello ma veicola un messaggio, una storia. Ad esempio, nel periodo barocco gli artisti quando si invaghivano di una donna, inserivano il ritratto in una tela con un bouquet di fiori. Ogni fiore era scelto per comporre con la sua iniziale il nome dell’amata. Stessa cosa poteva essere fatta con dei cammei di gemme. Oppure c’era l’edera a rappresentare l’amore e l’affetto; se si aggrappava a un tronco morto simboleggiava la sua vittoria sulla morte ecc. Voglio arrivare a queste cose. Per questo sto facendo una copia del San Giovanni Battista di Leonardo: c’è ancora da lavorare e non arriverò ovviamente mai all’originale, ma mi fa imparare tantissimo a livello tecnico”.
Mi ricordo il mio amico Dante Fazzini con la sua copia di Rembrandt [ne ho parlato lungamente QUI].
“Un grandissimo Dante Fazzini, è proprio così. Quando entro in un museo adoro avere quella profondità di sguardo che ti permette di guardare che un dipinto di Leonardo non usa il bianco ma fa settanta-ottanta velature di colore per ottenere una straordinaria profondità e cangianza, come se fossero i layer di Photoshop. Io sono proprio appassionato poi delle vicende umane degli artisti. La rivalità Leonardo-Michelangelo. Il Pontormo che odiava tutti e se ne stava chiuso in casa, tranne che per il suo allievo e forse amante; un cardinale ammiratore gli prendeva commissioni in Francia ma lui poi andava a rilento… facendogli fare brutte figure, ma era bravo e quindi ci si passava sopra”.
Al momento che cosa prepari?
“Devo concludere, con alcune velature, il San Giovanni Battista che ti dicevo. Poi ce n’è un altro che diventerà un San Sebastiano, doveva essere per un signore che aspettava un cuore nuovo ma con i miei tempi leonardeschi lui si è già operato e sta bene! Poi c’è un Prometeo per il professor Papetti, appena riterrò la mia tecnica all’altezza. E in realtà c’è tutta una serie mitologica in divenire, se è per questo. Ci sarà poi un’opera sulla violenza di genere, col sottotesto che siamo vittime e carnefici: una Circe con le vesti stracciate e però un sorriso sardonico, con un maiale trasformato e l’altro… ma insomma è tutto da studiare. Per una collettiva a cura di Nazareno Luciani, presso lo spazio Giovarti di Monteprandone, ogni artista doveva scegliere un personaggio storico: io ho preso Lorenzo il Magnifico. Non potrò inventare molto, pena la perdita di riconoscibilità, ma inserirò le simbologie che ti citavo: magari sul tempo e la morte, con lui appoggiato su un bel teschio in contrasto con la sua ‘quant’è bella giovinezza’. Sono sempre un po’ cupo nelle mie tematiche. Ho in mente qualcosa sul suicidio con un bambino che si aggrappa alle vesti della morte. È, infine, già in realizzazione di un Cristo molto blasfemo che butta via la croce”.
Si nota un’indagine spirituale.
“Io mi definisco un ricercatore spirituale. Sono praticante del Kriyā Yoga [e mi mostra un tatuaggio sul braccio, ndr], introdotto in India nel XIX secolo da Lahiri Mahasaya dopo averla appreso, secondo la sua testimonianza, tramite un’apparizione del leggendario guru Babaji Maharaj. È basato sul controllo del respiro, che accelererebbe l’evoluzione spirituale, e produrrebbe un profondo stato di serenità e di comunione col divino. La preparazione e l’iniziazione viene effettuata presso un maestro. La meditazione mi aiuta molto, a livello psicologico. A livello spirituale non so. Sono affascinato dall’Oriente, ma sono lontano dall’accettazione fideistica del ‘lo dice il maestro’. Quindi mi capita di prendere schiaffi (e di darne, sono un tipo polemico) sia dai credenti cattolici, sia dai fan di un orientalismo dogmatico. Io sono alla ricerca, tanti hanno troppo bisogno di aggrapparsi a qualcosa, invece, per dare un senso alla vita”.
Seguiamolo su Instagram QUI, mentre aspettiamo il catalogo della sua prima personale: il progetto grafico è in dirittura d’arrivo. E finanziamone la stampa acquistando le sue opere! Diceva Leo Longanesi: “L’arte è un appello al quale molti rispondono senza essere chiamati“. Non è il caso di André Benedetto.
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