“Come si suona il pianoforte?”. Anastasia Fioravanti aveva appena tre anni ed era nata in una casa in cui la musica non mancava mai: il padre violinista, la madre pianista e cantante lirica. Con la curiosità di una bambina, rivolge quell’interrogativo alla madre e lei sta al gioco: le mostra il do, le fa vedere un po’ come funziona lo strumento. “Mi insegnò Fra’ Martino e… mentre lei si preparava ad uscire io già l’avevo appreso! Così, dopo aver interiorizzato i primi rudimenti con la mano destra, le chiesi della mano sinistra. Lei era stupita, imparavo presto”.
Nuova puntata della nostra serie sui talenti originari del nostro territorio e stavolta, con temperature sahariane siamo a San Benedetto del Tronto. Con noi c’è anche un altro ospite d’eccezione: il fotografo Samuele Ripani (l’abbiamo conosciuto QUI), che ci offrirà una serie di scatti del nostro incontro (“Sì, però non metterli tutti che poi sembra che io me la tiri troppo” scherza l’intervistata). La musica era diventata già allora, un po’ consciamente e un po’ no, la sua vita e il suo futuro. “Ho deciso che la mia professione non sarebbe potuta che essere quella, l’avevo capito quando posai per la prima volta le mie dita su quei tasti”.
A otto anni c’è l’ingresso al conservatorio, il Pergolesi di Fermo. “Sono arrivata prima su 58 ed ero l’unica della mia età. Purtroppo, nonostante alla fine abbia intrecciato qualche amicizia, era difficile a causa della differenza d’età. Era il vecchio ordinamento e mi sono trovata benissimo, Daniela Cantarini è stata la mia insegnante per tutto il percorso. Mi sono diplomata a 14 anni con 10, lode e menzione”.
Prima di vedere meglio il prosieguo del tuo percorso, mi piacerebbe sapere cos’è per te la musica.
“La musica è qualcosa che allo stesso tempo mi aiuta e mi conforta. Per un certo periodo non mi mettevo a suonare quando mi sentivo triste: un bel giorno lo feci. E così trovai la mia dimensione. Se non suono per qualche giorno provo un’angoscia intensa, ne ho un bisogno viscerale per star bene. Per questo non potrò mai smettere di suonare e ascoltare musica.
In generale, con la musica ho un rapporto di amore e odio, perché si tratta sempre di una lotta. Da una parte voglio riuscire a fare bene, e per questo occorrono sacrificio e tanto lavoro. Dall’altra parte c’è la profonda commozione quando hai ottenuto il risultato (o la rabbia se non sei adeguatamente ispirato e concentrato). Ieri ho fatto sentire il Notturno di Chopin a mia madre e mia zia, che erano a casa… al termine le ho guardate ed entrambe avevano le lacrime agli occhi. Questo deve suscitare la musica, quando ti riesce. Mentre studi, pensi solo al futuro, questo è il tuo unico incoraggiamento: ‘Se mi impegno, vedrò i risultati’ ti dici questo per andare avanti”.
Cosa vuol dire per te suonare?
“Vuol dire dare la propria interpretazione e offrirla agli altri. Come in ogni forma d’arte, il proprio stato d’animo è alla base dell’interpretazione che dai. Spesso si pensa ingenuamente che suonare voglia dire ripetere o copiare: ovviamente dietro c’è un attento studio, ma poi l’elemento essenziale è quello che metti tu, di tuo. Suonare vuol dire creare e ricreare ogni volta il brano che esegui. Per questo il periodo del lockdown è stato per me molto duro. Non c’erano i concerti, non potevo andare in accademia o al conservatorio, al massimo qualche lezione online (ma capirai che sentire i suoni attraverso il Pc…). L’unica cosa che potevo fare era suonare a casa da sola. È stato difficile, mi sentivo inutile e mi sono dovuta sforzare di credere in me stessa.
Si è trattato anche di un momento di transizione nella mia crescita come persona, mi sono percepita alla fine di quella fase che chiamiamo ‘adolescenza’: mi sentivo scombussolata, in un corpo e in una testa molto diversi. Si è trattato di un periodo di pensieri e riflessioni, non era più il tempo di cosa campate in aria ma di concretezza, pensare a come realizzare – dal punto di vista pratico – il mio futuro”.
Mi hai spiegato cosa vuol dire suonare, ma prima di un concerto – invece – come ti senti?
“Sto malissimo. Davvero! Ho un’ansia che non ti immagini, una paura… voglio fare bella figura, ci tengo, voglio dimostrare a me stessa di aver fatto un bel lavoro. Bisogna dire che io sono eternamente insoddisfatta. In particolare, mi preoccupo di avere le mani calde, ma non troppo fino a farle sudare. L’ansia mi fa sudare freddo e questo mi fa temere di far scivolare le dita sui tasti.. Tutto questo, però, termina quando inizio a suonare. Entro in relazione col pubblico e, anzi, mi rendo conto di lasciarmi trasportare fin troppo dai miei pensieri. Mi capita di mettermi ad ascoltare quello che dicono i presenti, mi fisso a guardare una persona, penso a ciò che ho mangiato… Poi torno in me e riprendo il filo, riconcentrandomi. D’altronde l’esercizio che faccio ogni volta è quello di chiamare mia nonna. Lei riesce a parlare sempre e comunque, con tutti. Io le chiedo di sostenere una conversazione mentre suono, se riesco vuol dire che sono pronta”.
Un’esperienza totalizzante, per te, la musica. Quanti sacrifici ha comportato?
“Devo premettere di essere stata molto fortunata: i miei genitori mi hanno sostenuto, mi sostengono e mi sosterranno sempre. Me ne sono resa conto davvero ultimamente, perché quando sei più piccola non capisci tante cose. Crescendo vedi quanti sacrifici hanno compiuto e compiono per permetterti di realizzare i tuoi sogni. Sono i tuoi fan numero uno, tifano per te anche quando sbagli. E ci sono nei momenti di scoramento, e ne ho avuti… Loro sono lì a incoraggiarti.
Detto questo, avendo iniziato da molto piccola, il mio tempo libero è sempre stato estremamente ridotto. Per tutto il mio percorso scolastico, oltre alla scuola e ai compiti, c’erano le ore di studio musicale. Quello che i miei insegnanti hanno sempre fatto fatica a capire è che per me la musica non era un hobby, era il mio futuro. A 12-13 anni ho dato l’esame di storia della musica, che prevedeva lo studio di un tomo di 500 pagine: mi aveva spaventato parecchio. Questo per far capire quanti sacrifici comporta il coraggio di seguire le proprie passioni”.
I tuoi coetanei come vedevano questo tuo impegno?
“Io ero innamorata di Mozart. Fin da piccolina per addormentarmi pretendevo di ascoltare il Don Giovanni, nient’altro. La mia passione per la musica classica veniva difficilmente capita, mi prendevano in giro… ‘ascolti la musica dei morti’. Per farti capire, io non so nemmeno come si balla la macarena. Però, ultimamente, mi sta salvando TikTok. Ora scopro, andando in discoteca, di riconoscere le canzoni. Altrimenti non saprei nulla. La mia playlist su Spotify è solo di musica classica. Poi, certo, mi piace variare, ma accetto solo una musica che abbia certe qualità. Posso ascoltare, e lo faccio con piacere, De Andrè: lì riconosco lo studio, la profondità. Non potrei mai ascoltare rap o trep, anzi trap: non so manco come si dica. Ovviamente ora, essendo cresciuti, mi sento meno esclusa. Ma certo la battutina ancora può capitare (‘A me fa dormire quella musica’). Io, comunque, non mi sono mai sentita in difetto: la musica classica è la cosa più bella mai esistita e chi non lo riconosce… non capisce nulla di musica”.
Tornando al tuo percorso, a 14 anni hai terminato il conservatorio e poi?
“Mentre aro all’inizio del liceo linguistico, prendevo lezioni private dal maestro Lorenzo Di Bella. Mi ha completamente cambiato la mano, mi ha formato la mano, mi ha aperto un mondo fatto tutto di interpretazione. Dopo due anni, sono entrata all’Accademia Internazionale di Imola. Preso il diploma, mi sono trasferita a Bologna. Una città che è proprio un altro mondo, un’altra mentalità. Una città a misura d’uomo e piena di stimoli: mi dà tanta speranza e voglia di fare, voglia di organizzare. È una città viva e aperta, dove puoi conoscere gente attiva, una città in cui trovi davvero tante possibilità, tanti eventi.
Sono venuta qui per frequentare un Diploma Accademico di II Livello, equipollente a una laurea magistrale rilasciata dalle università. E vorrei sottolineare che il nuovo ordinamento del conservatorio fa schifo. Scrivilo! Prima tutto era concentrato sullo strumento, a cui si aggiungevano cinque o sei materie: armonia (per farti capire la composizione), musica d’insieme (perché devi saper suonare con gli altri), solfeggio (che è la base di tutto), canto corale (per sperimentare anche l’aspetto del canto) e storia della musica (perché senza vedere in prospettiva storica non si può capire nulla). Io, adesso, sto frequentando il biennio di clavicembalo che segue il triennio, quindi già meno materie ma comunque ho vari tipi di contrappunto (una sorta di armonia antica), poi improvvisazione, ornamentazione, semiografia antica, pratica e ripetizione del repertorio del canto rinascimentale e barocco e stavo dimenticando l’essenziale bibliografia.. E forse non mi stanno tornando in mente proprio tutti”.
Come sei arrivata al clavicembalo?
“Tutto nacque da una masterclass quando ero piccola, a Fermo, in cui ebbi modo di conoscere Luigi Ferdinando Tagliavini, uno dei più grandi organisti e clavicembalisti, uno dei maggiori musicologi della musica antica. Lui mi prese in simpatia e mantenni i contatti: mi invitò nel complesso di San Colombano (sempre a Bologna), dove ha sede il suo museo di strumenti antichi. Tutti gli anni tornavo per concerti di rilevanza internazionale e ho inciso alcuni brani per documentare le sonorità dei clavicembali, spinette e pianoforti della collezione. La passione per il clavicembalo è stata sugellata poi dal dono, in virtù del nostro bellissimo rapporto, del suo stesso strumento da parte della famiglia, dopo la sua morte nel 2016.
In ogni caso continuo con il pianoforte a Imola, dove sono al primo anno del corso avanzato con insegnanti Igor Roma e Andrè Gallo: un impegno, in termini orari, intensissimo. Pianoforte e clavicembalo sembrano molto simili ma, in realtà, sono prodotti da due epoche profondamente diverse, necessitano un approccio molto differente Sul pianoforte hai i colori, le dinamiche, i pedali e le corde che vengono martellate mentre sul clavicembalo, in cui vengono invece pizzicate, per dare espressività devi dare importanza soprattutto al fraseggio”.
Ci sono altri strumenti di cui vorresti approfondire lo studio?
“Se avessi tempo, anche subito mi dedicherei al violino. Da piccola, mio padre mi aveva insegnato qualcosa, ma poi decisi di continuare con il pianoforte perché col violino i risultati richiedono ancora più tempo. C’è l’intonazione, devi ritrovare le note ecc.: insomma, è uno strumento molto più complesso. Chissà, magari anche dopo la pensione?
In generale io sono una appassionata delle arti in tutte le forme. Non lo dico solo perché qui abbiamo un fotografo notevole, ma – per esempio – capire meglio il mondo della fotografia mi piacerebbe. Mi piace posare, ma vorrei capire cosa c’è dietro uno scatto. Non per diventare fotografa ma per essere più consapevole. E così per tante altre arti. Mi piace disegnare e lo faccio spesso nei tempi morti, anche se non ho chissà che talento. Da piccola, mi sono avvicinata al mondo della recitazione. Ero molto espressiva, feci alcuni provini. A 11 anni mia madre mi chiese se volessi provare con il teatro, ma non ero pronta. Ero davvero troppo timida, troppo rigida… alla fine mi mettevano semplicemente a cantare, visto che ero intonata, almeno. Ora avrei un approccio diverso”.
Che programmi hai per il prossimo futuro?
“Sto frequentando una serie di masterclass che stanno andando molto bene. In programma ne ho una con Romano Pallottini, qui vicino a Fermo, e poi nel Cilento con Alessandro Marino, un concertista che fa brani mai sentiti e li fa conoscere (e poi è simpaticissimo!). Le masterclass ti formano molto, ti confronti con l’opinione di vari maestri e puoi quindi prendere spunto da più idee per creare la tua.
E poi continuerò a lavorare, già collaboro infatti con una scuola privata e poi c’è l’Accademia. Vorrei riprendere in seguito a preparare concorsi, lo facevo da piccola ma poi a causa degli impegni scolastici ho smesso. Infine, ci sono i concerti: ho fatto amicizia con contrabbassisti, violinisti ecc. E non è detto che resti a Bologna, dipende anche dalle graduatorie per l’insegnamento”.
Io lavoro come insegnante, tu come vedi questa professione adesso che stai iniziando a esercitarla?
“Inizialmente era un mestiere che mi spaventava tantissimo. Più che altro non avevo nessuna idea del come approcciarmi, anche perché io insegno soprattutto a bambini. Adesso però ho preso la mano e mi diverto molto. E, devo ammetterlo, ora capisco gli insegnanti. Quando si è giovani e studenti non si riesce a mettersi dall’altra parte… Si può dire che io sia allo stesso tempo dalla parte dello studente e del docente, mentre prima ero a prescindere solo dalla parte dello studente. Certamente mi piacerebbe lavorare con studenti più grandi. Ho avuto modo, per sostituzioni, di lavorare anche con anziani. È stato davvero bello vedere con quanta motivazione, con quanto interesse e con quanto impegno venivano e poi lavoravano a casa. I più giovani, invece, vengono magari più perché obbligati o solo a provare”.
Per concludere, cosa diresti a qualcuno che vuole intraprendere una carriera nella musica?
“Mettiti in testa che dovrai studiare tanto, tantissimo. Occorrerà sacrificarti e spesso crederai di non farcela, ti sentirai una nullità. Ma dovrai tenere duro, raddoppiare l’impegno e scacciare quei pensieri (fondamentale è il supporto di qualcuno che ti stia vicino). E sfatiamo comunque il mito secondo cui di musica non si vive. Io se l’attività da concertista e da pianista non andrà, sicuramente resterei come insegnante. Non a scuola, però, ma in conservatorio. Altrimenti come ci vivi con lo stipendio che avete voi?”
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