Viviamo in un tempo abitato dalla fragilità. All’esterno, ce ne viene continuamente imposta una, la fragilità delle nostre vite precarie, in cui tutto sembra cambiare troppo velocemente (lavoro, affetti, luoghi, ecc.). Al contempo, in un doppio movimento, ci viene negata però la fragilità interna, quell’intimità fragile che abbiamo paura a tirare fuori di fronte a un mondo che la odia, che la vuole sopprimere e nascondere. Un mondo che ci ripete che cane mangia cane, che gli altri ti vogliono solo fregare (lavoro, fidanzati ecc.). Fregare e abbandonare. Un mondo che ci dice che se sei fragile hai perso, che devi essere forte e indipendente, altrimenti fallirai. Se la società è fragile, all’individuo viene detto di badare a se stesso, in una lotta di tutti contro tutti in cui a vincere sono sempre i più privilegiati.
Intanto, secondo il rapporto Istat sul 2015-17, in quel periodo c’erano 2,8 milioni di italiani che soffrivano di depressione, mentre 3,7 milioni hanno sofferto di disturbi ansioso-depressivi. Una recente ricerca pubblicata su Nature ha mostrato come circa la metà degli italiani sia a rischio depressione clinica in questo tempo di pandemia, con un aumento del 36% rispetto al periodo precedente. Eppure, solo il 15% degli adulti che soffrivano di depressione o ansia si era rivolto a psicologi, affermava ancora l’Istat. Perché? Abbiamo parlato di questo e tanto altro con due giovane psicologhe, che avevamo già incontrato per una interessante iniziativa di Sinapsyche (di cui abbiamo parlato QUI).
Beatrice Moretti e Greta Bonfigli, psicologhe ascolane, ci accompagneranno in un viaggio all’interno della loro disciplina ma, innanzitutto, chiedo loro: Perché ho pensato proprio a voi?
G – “Perché la divulgazione ci appare davvero fondamentale. E così la passione per la psicologia ci ha portato a Sinapsyche. Sentivamo un forte bisogno di raccontare, in modo semplice, quanto avevamo appreso all’università (e continuiamo ad apprendere nelle nostre esperienze lavorative e non), in quanto percepivamo un vuoto da questo punto di vista, in Italia. È stato anche un modo per condividere e confrontare preoccupazioni, desideri e sogni con altri giovani psicologi di tutta Italia, che si affacciano proprio come noi sul mondo del lavoro. Beatrice mi ha coinvolto nel progetto e, insieme, ci facciamo un po’ forza [sorride, ndr]”.
Un progetto molto interessante ma, ancora una cosa prima di entrare nel vivo, mi raccontereste un po’ il vostro percorso?
B – “Quando ho dovuto scegliere l’università, avevo già le idee chiare. Sentivo molto mio il desiderio di fare qualcosa che riguardasse famiglie e bambini, qualcosa che mi permettesse la comprensione di tutti quegli aspetti delle dinamiche familiari che possono influenzare, anche molto negativamente, la crescita. Per questo ho scelto una laurea magistrale in Psicologia clinica dello sviluppo all’università di Padova. Da lì un tirocinio che si occupava di progetti nelle scuole e su questa scia ho sviluppato un forte interesse per la fascia d’età adolescenziale“.
G – “Quando al liceo delle Scienze umane ho studiato Freud, mi si è aperto un mondo. La filosofia mi ha sempre aperto orizzonti ricchi d’interesse, ma la parole che la mia insegnante utilizzava per spiegarci il padre della psicologia mi hanno rapita. Da lì la scelta della Psicologia dinamica, con una laurea magistrale a Urbino, dove ci sono molti docenti legati a questo settore. Un tirocinio a Londra per una ong che si occupava di migranti che mi ha toccato molto profondamente e mi ha dato poi lo spunto per cercare di unire psicologia clinica e etnopsicologia“.
Ci sono già alcuni termini di cui vorrei chiedervi il significato preciso ma, andiamo con ordine. Quando vi ho contattato lo spunto è stata una questione di cui molto si è discusso (e si continua a discutere): il cosiddetto Bonus psicologo.
B – “Il Bonus psicologo (o Bonus salute mentale) non è stato inserito nella Legge di Bilancio 2022, nonostante la misura sembrasse sostenuta da tutti i partiti. La scelta ha provocato molte proteste e su change.org è stata pubblicata anche una petizione per chiedere al Governo di mantenere la promessa e di inserire l’agevolazione nel primo provvedimento utile. Si sarebbe trattato di aiutare economicamente (si parlava di 50 milioni di euro di copertura) coloro che decidono di rivolgersi a uno psicologo, uno psicanalista, uno psichiatra o uno psicoterapeuta. Avrebbe risolto i giganteschi problemi relativi al ruolo e alla gestione della salute mentale in Italia? Evidentemente no, ma poteva essere il segnale di un’inversione di tendenza. Soprattutto nel periodo di pandemia che stiamo vivendo. Se le conseguenze fisiche hanno interessato (e stanno interessando) una quota crescente della popolazione, le conseguenze psicologiche (timori, ansie, preoccupazioni, sensi di colpa ecc.) interessano proprio tutti, ogni giorno. La nostra salute mentale resta di serie B.
Eppure leggevo, ad esempio, del noto psicoimmunologo Sheldon Cohen e delle sue ricerche sul legame tra fattori stressogeni a livello psicologico (come l’isolamento dei lockdown) e l’abbassamento delle difese immunitarie.
B – “Mente e corpo non sono entità separate. Sembra una banalità dirlo, ma a quanto pare occorre. Perché? Ancora si fa fatica a mettere sullo stesso piano le scienze mediche e le scienze psicologiche, peraltro relativamente recenti. Perché il malessere interiore è spesso nascosto, quello fisico lo si vede a occhio nudo o con esami vari, che quantificano con precisione cosa non vada. E c’è poi un essenziale aspetto socio-culturale: l’individuo odierno viene continuamente spinto all’autorealizzazione personale. È come se ognuno di noi dovesse già, in maniera del tutto autosufficiente, possedere in sé le risorse necessarie ad autorealizzarsi. In questo mondo, però, il conseguimento delle aspettative sociali diventa praticamente l’unico obiettivo, un imperativo a cui non si può sfuggire e, tutto ciò che devia dal percorso ‘normale’, diventa un problema, viene etichettato dalla società come un problema. Non si possono avere difficoltà, non si può rallentare. Pensiamo a livello educativo, che si fa a livello di emozioni? C’è grande povertà nell’educazione emotiva e questo si traduce nella svalorizzazione del proprio mondo emotivo. Le emozioni negative sono un ostacolo da fuggire, da negare, da nascondere. Di fronte a tutto questo, come fa a nascere la domanda: ‘Sto male, c’è qualcuno a cui posso rivolgermi? Si può fare qualcosa o è solo un problema mio e deve rimanere tale?’.
G – “Ci sono stereotipi che da sempre caratterizzano la nostra professione. Forse un po’, almeno nella mia esperienza, li ho visti ammorbidirsi, ma restano. ‘Dallo psicologo ci si va, proprio malgrado, quando si è molto malati’. Non ti viene da dire che vai da uno psicologo e, se lo dici, senti quasi di doverti giustificare. Io stessa quando ho iniziato un percorso da uno psicoterapeuta mi è venuto da giustificarlo, soprattutto con i miei familiari. ‘Tu lo devi fare per i tuoi studi, no?’ ‘In realtà no, lo faccio per occuparmi di me’. Cresciamo con una scarsa possibilità di parlare del nostro universo interiore, specie quando negativo, e d’altronde non è mica un caso che ci sia voluta una pandemia globale per riportare nel dibattito pubblico il tema della salute mentale. Ci pressa il ritorno alla normalità, una normalità materiale, però. Vogliamo rimettere tutto in moto, come se nulla fosse: per quanto è performativa e individualizzata la nostra società, non ce la fa a mettere il benessere del singolo al primo posto. Un benessere che la psicologia sostiene, ma lo fa col ritmo lento. La psicologia è una scienza narrativa e farsi domande richiede tempo. La nostra, invece, è una società che corre, che performa, che vuole convincersi che dal benessere economico discenderà in modo necessario e naturale tutto il resto“.
Da qualche parte leggevo, sull’onda del dibattito sulla psicologia di questi giorni, dell’opera di Luigi Solano, docente alla Sapienza e che, più di tutti, ha sperimentato l’idea dello psicologo ci base.
B – “Lo psicologo di base e lo psicologo della scuola, istituzionalizzando la figura, contribuirebbero alla normalizzazione. Così come un investimento in una ampia divulgazione in ambito psicologico, che è ciò che noi proviamo a fare nel nostro piccolo (in pura maniera volontaria), potrebbe essere un buon punto d’incontro fra istituzioni, finanziamenti, senso comune, falsi timori. Il problema è, però, sempre lo stesso: bisogna metterci soldi. Il Servizio sanitario nazionale è una grande, fondamentale conquista, eppure non finanzia la salute mentale. Nel dibattito pubblico notiamo che ci si appropria di parole della nostra disciplina, decontestualizzate e banalizzate (empatia, resilienza, la stessa psicoanalisi), contribuendo a mascherare il fatto ci siano degli esperti, che sia una specializzazione. Oppure si ha l’idea che in fondo anche la mente sia tranquillamente medicalizzabile…“
G – “Il fatto è questo: nella maggior parte dei casi si entra in contatto con la psicologia perché o c’è in famiglia una certa sensibilità oppure perché le tue difficoltà sono così intense che si rivela inevitabile. Per questo l’esempio dello psicologo di base mi sembra importante per offrire una risposta più globale ed efficace al disagio dove, di frequente, emerge la domanda: nello studio del medico di medicina generale. Fra le tante, ricordo una ricerca in cui per tre anni fecero arrivare negli studi medici degli specializzandi in psicoterapia: si scoprì che gli stessi medici di base indirizzavano agli psicologi la maggior parte delle richieste a cui quotidianamente facevano fronte e che, senza la loro presenza, avrebbero risolto con prescrizione di esami, farmaci ecc. La medicina tentava in quel modo di colmare il vuoto dell’assenza di un supporto psicologico. Io vorrei che un ragazzo un giorno possa alzarsi la mattina e dire: ‘Ho bisogno un attimo di confrontarmi’. Ecco la società deve imparare a dire, sì ci devono essere tempo e modo per occuparci di noi stessi“.
Per Freud le sedute devono costare, per motivare il paziente. Oggi leggevo che il 27,5% dei potenziali pazienti non ho iniziato un percorso di salute mentale nel 2021 per ragioni economiche, mentre il 21% di chi lo aveva iniziato l’ha dovuto terminare per gli stessi motivi.
G – “Prima parlavamo del bonus. A me già come parola non piace, un premio, una mancetta. Un qualcosa di superfluo. Un campo semantico che non è adatto a essere associato alla psicologia“.
B – “Nel privato in questa pandemia ci sono state molte iniziative per calmierare i prezzi. Per chi fa questa professione c’è l’idea di un benessere collettivo. Però è chiaro, ciò che manca in Italia è il pubblico. La mia prima esperienza da uno psicologo è stata presso il servizio dell’università ma, dopo circa otto incontri, mi è stato detto chiaramente che c’erano altre urgenze e che quindi, in qualche maniera, la mia domanda era di natura inferiore rispetto ad altre. Una cosa che poi dentro di me ho dovuto gestire: ‘Quindi, se non ha importanza per una figura professionale, per me quanto dovrebbe averne?’. Torniamo alla solita questione, occorrerebbe ripopolare consultori, scuole, centri di salute mentale ecc. con professionisti competenti che lavorano in gruppo e pensano in termini di comunità. Gratuitamente”.
Beatrice, prima parlando del tuo percorso ricordavi il tuo interesse per la fascia giovanile. Mi viene da chiedervi, come docente di licei, come la vedete la loro salute mentale, oggi.
G – “Da quanto ho visto c’è molta più richiesta da parte dei giovani. Sono (non solo loro) più fobici al contatto, fobici alla pelle, alle labbra o semplicemente ci si è abituati alla solitudine, a incontrare poca gente ‘nuova’. L’estraneità è sempre più vista con diffidenza. L’isolamento ci tutela dal Covid ma al contempo la solitudine ci divora. Importante l’aumento di autolesionismo. L’incertezza che si prova (‘la pandemia finirà davvero, quando, come…’) in questo periodo si congiunge con una fase che già è di crisi di suo, perché è quella della conflittualità con la famiglia, della ricerca di una propria identità, di una vita irreggimentata da una scuola che è tendenzialmente indifferente al benessere interiore dei ragazzi (quando non la peggiora). E così si cercano vie d’uscita disfunzionali. Soli, senza un supporto”.
B – “In un tempo in cui l’incuria regna sovrana, solo nella cura, nello scambio, nella condivisione e nel confronto si può provare a uscire dal proprio disagio. I disturbi alimentari, che interessano in modo sempre più intenso gli adolescenti, hanno la loro origine nella relazione d’amore. Il cibo è ciò che ti lega all’altro, nutrire ha un forte elemento simbolico. Quanto più si passa tempo in famiglia, complice la pandemia, tanto più si rafforzano dinamiche familiari problematiche, laddove presenti. Non mangiare è una chiara richiesta di attenzione, di essere nutriti (ma non di cibo). I disturbi alimentari, l’ansia e la depressione sono i sintomi del malessere della nostra società: il confronto con un’immagine che viene interiorizzata e naturalizzata senza che gli adolescenti se ne accorgano, sviluppando un disturbo da dismorfismo corporeo. Da una parte la ricerca di un modello nell’immagine patinata, bella e perfetta (quanto irreale e irraggiungibile) dall’altro i vetusti modelli che si ricercavano nella famiglia e nella tradizione”.
G – “La nostra è una società visiva, oculocentrica. Le vittime sono quei giovani alla prese con like, voti su Instagram, numero di follower, stories in determinati posti con determinati vestiti, con tante persone a fare cose da sogno. Ma chi si è preso la briga di verificare che cosa sentano, che problemi abbiano, come stiano coloro che per molti e molte appaiono come modelli. E così ci si riempie di vuoto, magari. Come nell’anoressia“.
Eppure la consapevolezza è poca, a tutti i livelli.
“La famiglia e la scuola sembrano del tutto inadeguate. Si sentono spesso parole come ‘ci marciano’ o ‘esagerano’. Ciò che sembra disturbare è l’invadenza dei sintomi, ma è proprio l’esagerazione il valore aggiunto. E menomale che si mostri, altri disagi psicologici sono ben più invisibili (e quindi difficili da combattere in tempo). Bisogna fare in modo di agganciare questa sofferenza, senza girarci dall’altra parte e soprattutto stigmatizzarla. Dobbiamo metterci in testa che non c’è un percorso canonico, che non ci sono percorsi ‘normali’, persone ‘difettose’. Mi sembra paradossale che in una civiltà dell’immagine, non si possano mostrare le proprie immagini interiori ma si resti solo all’epidermide delle cose (e delle persone)“.
Nel corso di questa conversazione abbiamo usato tanti termini, che molti confondono o di cui non conoscono il significato: ce li chiarite?
“Il laureato in psicologia, dopo cinque anni di università, svolge un tirocinio obbligatorio di 1000 ore per poi accedere all’Esame di Stato, che gli darà il titolo di Psicologo. Dopo di che, si può passare a una scuola quadriennale successiva. Per banalizzare, così come dopo la laurea in medicina si fa la scuola di specializzazione, così in psicologia si fa la Scuola di psicoterapia, scegliendo fra vari (cosiddetti) ‘orientamenti’. Da notare che, tranne le tre scuole pubbliche, per il resto ci si affida al privato in Italia e quindi, mentre i medici specializzandi sono pagati, gli psicoterapeuti specializzandi no. Anzi la scuola te la paghi tu. Con il titolo di psicoterapeuta, poi, hai maggiori possibilità di lavoro clinico, di partecipare a concorsi pubblici (quando e se ci sono).
Questi orientamenti sono vari, ma vorrei focalizzarmi su quelli più noti: da una parte quello dinamico-psicoanalitico, dall’altra quello cognitivo-comportamentale. Il primo ha la sua origine in Freud, Jung fino a tutti i teorici più recenti e, sempre per banalizzare, parta dall’idea di abbandonare il qui e ora per recuperare i contenuti rimossi dal tuo inconscio, che ti guidano nei tuoi comportamenti quotidiani senza che tu ne sia cosciente. Il secondo va per la maggiore nel mondo anglosassone ed è rivolto primariamente al qui ed ora, a pensieri che ho e a come poterli gestire. Un approccio pratico, più orientato alla soluzione di problematiche immediate, con una promessa di vedere gli effetti più rapidamente. La psicoanalisi invece non si dà un termine. Vorrei lo scrivessi in maiuscoletto, LO PSICOLOGO NON DÀ CONSIGLI, la psicologia è un allenamento a farsi domande. Lo so, una prospettiva inattuale in un mondo che odia la lentezza“.
Mi era rimasta una curiosità sull’etnopsicologia.
G – “Psicologia culturale, psicologia transculturale o crossculturale, antropologia psicologica e etnopsicologia. In un’epoca come quella contemporanea, in cui l’interazione tra individui permea ogni attività quotidiana e l’assenza di veri e propri confini incrementa la possibilità di scambio tra le diverse etnie, in un’epoca in cui l’immigrazione è un fenomeno con cui facciamo i conti quotidianamente, occorre uno studio della ‘dimensione psicologico-culturale, di popolazioni di culture altre da quella che suole definirsi occidentale’ e il porsi nell’ottica di intervenire ‘su di essa, con dispositivi terapeutici adeguati’. Si tratta di un lavoro complesso in cui si deve tradurre il linguaggio emotivo di un determinato sistema culturale piuttosto che interpretarlo come in ottica occidentale“.