Perché parlare di intelligenze artificiali oggi
Stiamo vivendo uno dei periodi storici più incerti e nebulosi dell’ultimo secolo; il genere umano non si ritrovava in un momento di equilibrio così precario dai tempi della prima Guerra fredda, quando la minaccia del conflitto atomico era ancora qualcosa di reale e incombente. Oggi viviamo un’altra guerra, più velata ma non per questo più facile da combattere, contro un virus che ha infettato 130 milioni di persone nel mondo e continua a diffondersi gettando in crisi in paesi più industrializzati. La pandemia da Covid – 19 ci ha costretti a rimodellare l’ultimo baluardo di società tradizionale che ci era rimasto nell’epoca del digitale e del social network, e cioè l’idea che la vita vissuta “in presenza” avesse ancora un valore e fosse ancora utile al regolare funzionamento della società; che il ritrovarsi in maniera comunitaria servisse ancora allo svolgimento dei processi utili in una società di persone. Lo scoppio della pandemia e il conseguente avvento del distanziamento sociale ci ha costretto a ripensare anche a questo, lasciando alle tecnologie la strada spianata per inserirsi ancora di più nella nostra vita quotidiana.
Se c’è un momento storico in cui è giusto farsi la domanda: “Come evolveranno in futuro le intelligenze artificiali?” sembra essere proprio questo, il momento in cui le A.I. da mezzo utile per il lavoro e la ricerca, si sono trasformate in qualcosa di indispensabile per il ritmo delle nostre vite e per il funzionamento del pianeta, qualcosa a cui non possiamo più rinunciare se vogliamo che la nostra pianificazione del futuro rimanga invariata, per quanto possibile.
Pianificazione sempre più difficile da portare avanti, dato che siamo arrivati a incontrare i nostri primi “cigni neri”, termine che in futurologia indica gli avvenimenti che, fino a poco tempo prima considerati impensabili o assolutamente improbabili, finiscono poi per avverarsi; esattamente come nel ‘600, quando si era convinti che l’elegante volatile europeo potesse essere solo bianco, e degli esploratori tornati dai viaggi nelle terre australi smentirono questa credenza data per certa, raccontando l’esistenza dei cigni neri.
Il cigno nero è un concetto che è stato introdotto dal saggista e matematico Nassim Nicholas Taleb nel suo Il cigno nero (2007): esso rappresenta l’inaspettato, il fattore sottovalutato da tutti che invece incredibilmente si rivela attuale, lasciando tutti impreparati e nello sconcerto. È un concetto che finora si riferiva specificamente al mondo della finanza, dove l’elemento dell’imprevisto viene spesso sottovalutato; tuttavia, la storia ha poi dimostrato che è la natura stessa del nostro mondo a non essere poi così facilmente prevedibile.
In uno scenario in cui c’è il rischio di imbattersi in un cigno nero, è ovvio che l’uomo non può più farcela con le sue forze e si deve affidare, ora che può, all’utilizzo di nuove macchine e intelligenze artificiali che possano aiutarlo a integrarsi continuamente ai grandi cambiamenti della storia. Negli ultimi 150 anni gli uomini si sono sempre più affidati alla tecnologia per aiutarsi nella propria quotidianità, per arrivare oggi nel XXI secolo a un punto in cui per la società diventa difficile, se non impossibile, pensare a una vita senza beni ormai primari come l’elettricità, o i mezzi a motore, o addirittura senza internet. Nella società della condivisione istantanea, del villaggio globale (che ormai si potrebbe rinominare la “città globale”) e dell’informazione a disposizione di tutti, non è facile immaginare cosa potrebbe accadere in un futuro in cui l’intelligenza artificiale che vive nei nostri pc, scomparisse all’improvviso. Men che meno in un periodo storico in cui il contatto umano è sconsigliato e fa quasi paura.
L’uomo sembra quasi dirigersi verso una atrofizzazione, limitazione delle sue capacità di assimilazione di informazioni e di intervento sul mondo esterno, lasciando le macchine a svolgere i compiti più complessi, andando incontro a uno scenario di difficile previsione. In un tale stato di dipendenza e pervasività dalla tecnologia, un singolo errore, una singola concatenazione di eventi può portare la società umana nel caos.
In questo senso, il ruolo dell’uomo nel mondo sta diventando sempre più fumoso. Se davvero, come affermano studiosi ed esperti di futuro, l’intelligenza artificiale sta arrivando a soppiantare l’uomo nelle attività lavorativa, nel lungo tempo le nuove generazioni di uomini si dovranno adattare, come sempre hanno fatto nei secoli, a reinventare il proprio ruolo su questa Terra; terminata l’era dell’uomo lavoratore, inserito all’interno di un’ ottica produttivista-capitalista, egli si rivolgerà verso altri obiettivi.
C’è anche il rischio tangibile che l’uomo finisca per rendere se stesso superfluo; alcuni filosofi, soprattutto appartenenti alla corrente transumanista, hanno affermato che l’unico modo che ha l’uomo per non diventare egli stesso obsoleto, sia quello di ibridarsi con la tecnologia e le intelligenze artificiali, per superare la sua forma finita e i limiti biologici della carne, arrivando a una condizione di post-umanità. Julian Huxley, tra i fondatori del movimento transumanista, negli anni ‘50 già affermava la necessità di creare un mondo in cui: “l’uomo rimane umano, ma trascende sé stesso, realizzando le nuove potenzialità della sua natura umana, per la sua natura umana”. In questo senso, filosofi e saggisti appartenenti alla corrente sono convinti che i nuovi obiettivi della razza umana, una volta finita l’era della produzione, saranno la cancellazione dell’ invecchiamento e il raggiungimento dell’immortalità.
Per fare questo ovviamente non ci si può limitare semplicemente a migliorare le condizioni di vita delle persone: come afferma l’accademico israeliano Yuval Noah Harari nel suo testo Homo Deus. Breve storia del futuro (2018), la speranza di vita dell’uomo si è allungata notevolmente nell’ultimo secolo semplicemente perché i progressi della scienza e della medicina ci hanno permesso si allungare la “data di scadenza” del nostro corpo umano, ma questo non ha né rallentato né annullato il processo di invecchiamento dei nostri corpi biologici. Per Harari, così come numerosi altri scienziati e filosofi transumanisti, l’unico metodo per superare questi limiti è l’utilizzo delle nuove tecnologie, ed alcune di esse, come l’ingegneria genetica, la criogenia o le nanotecnologie, sono già studiate e considerate come le opzioni più valide per raggiungere questo obiettivo. L’uomo per sopravvivere nel mondo futuro delle intelligenze artificiali, si troverà nella condizione di ibridarsi ad esse, e superare la sua stessa condizione umana, trasformandosi lentamente, citando il libro di Harari, da Homo Sapiens a Homo Deus.
Le trasformazioni del mondo del lavoro
Tra le tendenze in atto al giorno d’oggi c’è quella, da considerarsi ormai impossibile da fermare, della digitalizzazione del lavoro. Sempre di più il lavoro si sta spostando da una posizione fisica, analogica, verso il mondo di internet, dove la prestazione lavorativa, così come guadagni e i rapporti tra dipendenti, possono essere volatili, possono avvenire in ogni luogo e in ogni maniera. In una tendenza del genere, il lavoro inteso come entrata fissa che assicura una vita serena al cittadino comune, inizia a perdere valore, e ci si sposta sempre più verso un’ottica dinamica come quella della cosiddetta gig economy, l’economia dei “lavoretti”, o della on-demand economy, i lavori che si basano sulla soddisfazione di bisogni immediati. Imperversa sempre di più la fluidità del lavoro a prestazione, a chiamata, in cui c’è il contatto minimo tra azienda e lavoratore e in cui l’importante è portare a termine il proprio compito e guadagnare subito il proprio compenso. Uno scenario, dunque, in cui viene meno il valore attribuito al posto di lavoro, ma si dà priorità al tempo personale, e al lavoro in funzione della propria disponibilità.
Foodora, Deliveroo, Uber sono tutte aziende in cui il rapporto azienda-lavoratore, e il rapporto lavoratore-cliente si regge sulla comunicazione mediata da un’ intelligenza artificiale. Questo cambio di rotta che il trend del lavoro ha preso negli ultimi anni ci fa chiedere sia se questo è davvero il futuro del mercato del lavoro che davvero vorremmo, sia se riusciremo ad adattarci senza lasciare sul campo morti e feriti. Quanti posti di lavoro si perderanno e quanti ce ne saranno di nuovi?
Vedendola con ottimismo si potrebbe iniziare a pensare a un quadro futuro in cui potenzialmente la logica stessa dietro il ruolo del lavoro nella società venga meno, e esso inizi ad essere ridimensionato. Una società in cui si lavora di meno ma potenzialmente guadagnano tutti e a sufficienza. Alcuni cambiamenti stanno già avvenendo in tal senso, se pensiamo che nel marzo 2021 la Spagna è stato il primo paese a introdurre la settimana lavorativa di quattro giorni, senza intaccare gli stipendi. Una soluzione che era già stata adottata in parte dalla Nuova Zelanda l’anno prima, per venire incontro ai diritti dei lavoratori nell’era dello smart working.
È per questo che da molto tempo gli studiosi e i futurologi stanno parlando di una nuova società in arrivo, la cosiddetta “società del post-lavoro”, uno scenario in cui le macchine sostituiranno completamente gli uomini, soprattutto nell’esecuzione dei lavori sacrificabili, o bullshit job: impieghi che non solo non sono soddisfacenti per coloro che li svolgono ma ne sviliscono anche l’etica lavorativa, deprimendoli. Quando nel futuro le macchine potranno svolgere queste mansioni gli uomini saranno pronti a vivere una società, appunto, in cui gli impieghi che svolgeremo saranno sempre più indirizzati al nostro piacere e legati alla nostra creatività, (difficilmente riproducibile da delle macchine), in modo che tutti lavoreranno evitando compiti stressanti e demoralizzanti, e tutti, per quanto questa affermazione abbia valore, potranno vivere delle vite felici in una società della autorealizzazione.
Tale argomento è stato profondamente sviscerato nel testo di Nick Srnicek e Alex Williams Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro (2015): secondo le loro teorie, i primi passi per raggiungere questo mondo ideale sarebbero la già citata riduzione dell’orario lavorativo, che si sta già cominciando ad attuare, e l’introduzione del reddito universale, un reddito minimo che garantirebbe un guadagno minimo sufficiente ad ogni persona inserita all’interno della società. Anche da questo punto di vista i governi mondiali si stanno muovendo verso l’introduzione di forme di assistenzialismo statale molto vicine al concetto di reddito universale, nonostante la strada per il futuro sembri ancora molto lunga.
Non è un caso che si sia diffusa negli ultimi anni la filosofia accelerazionista, che punta a, invece che impedirli o arginarli, accelerare i processi economici del capitalismo per poterlo così più facilmente superare e arrivare a società (per ora) utopistiche come quelle del post lavoro. Ideologia nata soprattutto nel mondo della letteratura di fantascienza, l’accelerazionismo è salito alla ribalta quando filosofi e scrittori come Nick Land, a partire dagli anni ‘90, hanno iniziato a sostenere nei loro saggi (come The Thirst for Annihilation: Georges Bataille and Virulent Nihilism del 1992) la necessità di accelerare i processi di vita del capitalismo, slegandoli dalle ideologie della politica e affidandoli alle capacità delle nuove tecnologie; non sappiamo dove questi processi potrebbero portarci, ma il presupposto su cui basa questa ideologia, è che l’uomo deve arrendersi all’idea di poter controllare le evoluzioni economiche e tecnologiche, lasciando piuttosto che essi si manifestino liberamente, fino a portare un totale sincretismo tra uomo e tecnologia.
Molti hanno accostato l’ideologia accelerazionista a una forma politica di ultra-capitalismo, associato alle posizioni dell’alt-right statunitense; tuttavia alcuni, come ha affermato anche il giornalista Park McDougald su New York Magazine, hanno anche visto nel movimento un modo per “accelerare il capitalismo, intensificando lo sfruttamento e l’alienazione causati dallo sviluppo tecnologico, con l’obiettivo di far collassare l’intero edificio sotto il peso delle sue contraddizioni e aprire così le porte a qualche forma di comunismo ad alto tasso tecnologico”.
In questa ottica l’accelerazionismo assume l’aspetto di un’utopia di autorealizzazione, come si accennava in precedenza, seppur di difficile previsione e di ancora lontano compimento. La visione di sinistra del movimento, vede il rapido processo tecnologico come il modo più breve per liberare l’uomo dalle catene di una società del lavoro sempre più nevrotica e precaria, e portarlo invece a un mondo dove si potrà scegliere liberamente quale lavoro fare, se si ha voglia di farlo.
Il lavoro è in fondo nella natura dell’uomo: l’adoperarsi per raggiungere un fine che dia un senso alla sua esistenza. Non è escluso dunque che il nuovo genere umano, svincolato dall’ottica individualista del capitalismo, ritrovi una dimensione comunitaria e possa impegnarsi collettivamente nel raggiungimento di grandi imprese prima impossibili da eseguire in singolarità, come ad esempio il recupero del pianeta da un punto di vista ambientale, per impedirne la definitiva distruzione. L’interconnessione tipica della nostra società, in cui ogni informazione è veloce e condivisa, può in questo senso aiutare l’uomo a raggiungere il suo obiettivo, e in uno scenario di questo tipo non si può che guardare alla tecnologia che in un’ottica positiva.
Questa può essere una delle tante previsioni di mondo del domani. In ogni caso la pervasività della tecnologia e delle intelligenze artificiali è un dato che non può più essere ignorato, un passo su cui sarà difficile tornare indietro, potendone prevedere al massimo gli ulteriori sviluppi. In un’ottica del futuro vicina alla filosofia accelerazionista ovviamente la spinta tecnologica ha un peso non indifferente, tanto che nella comunità scientifica si parla già dell’avvento incombente della cosiddetta “singolarità tecnologica”, il punto cioè in cui il progresso tecnologico sfuggirà dai caratteri di comprensione e previsione dell’essere umano, trasformandosi in una singolarità a sé stante in grado di compiere scelte e azioni non solo intelligenti, ma aldilà del nostro controllo. Uno scenario che da sempre ha appassionato l’essere umano, nelle arti e nella letteratura, portandolo a immaginare mondi e società in cui a dominare sono le macchine, ormai prive di controllo.
Evoluzione e ispirazioni dell’intelligenza artificiale al cinema
Autori e cineasti che si sono occupati di fantascienza si sono a lungo domandati dove ci potrebbe portare una società in cui la tecnologia ha preso il sopravvento sugli uomini, sostituendosi ad esso nello svolgimento delle attività quotidiane, partendo da scenari bizzarri o grotteschi fino ad arrivare a vere e proprie distopie dal tono apocalittico. Quella del rapporto uomo-macchina intelligente è una tematica che ricorre in fantascienza dai tempi dei romanzi di Isaac Asimov, che cercavano di dare una linearizzazione narrativa a questo complesso rapporto.
Uno dei primi grandi esempi cinematografici di conflitto tra uomo e macchina è l’inganno ordito dal supercomputer di bordo HAL 9000 al comandante della navicella spaziale del film 2001 Odissea nello spazio (2001), di Stanley Kubrick. L’intelligenza artificiale di HAL è programmata per essere infallibile, per sopravvivere, e allo stesso tempo per nascondere agli astronauti della nave il vero obiettivo della missione. Durante il viaggio essa comprende che i due astronauti vogliono disattivarlo per via di alcuni errori che ha commesso pur di non rivelare il fine del loro viaggio, e giunge alla conclusione che il modo più vantaggioso che ha per risolvere la questione è sbarazzarsi di loro. In una vera e propria trasformazione violenta, il robot da aiutante della missione inizia a ragionare freddamente, comandato dall’egoismo e spinto alla disonestà, virando velocemente verso le scelte più drastiche per sbarazzarsi di chi si mette contro di lui.
A partire da questa semplice intuizione suggerita da Kubrick nel suo film, tutto un grande filone di cinema si è poi occupato di immaginare in modo conflittuale o meno il modo in cui uomo e macchina possono dialogare, e quali rapporti di forza si possono creare tra loro.
Ridley Scott, nel film Blade Runner (1982), 14 anni dopo arriva quasi a dare una rappresentazione politica a questa divisione. I replicanti del film sono degli androidi creati dall’uomo per svolgere lavori pesanti sulle colonie umane fuori della Terra. Essi sono programmati per essere intelligenti come gli umani, e fisicamente più forti; gli vengono addirittura impiantati dei finti ricordi per renderli mentalmente più stabili e soddisfatti delle loro vite, che tuttavia sono finite e terminano dopo quattro anni di operatività. Un gruppo di androidi che ha preso coscienza di tutto ciò sbarca sulla terra per incontrare il loro creatore, il loro Dio, e rendergli conto di questa vita ignominiosa vissuta da schiavi. Sulla Terra ovviamente questi androidi sono considerati dei criminali rivoltosi che, ribellatisi ai lavori impostigli dagli umani, devono essere trovati e “ritirati” dal mercato.
Quella dei replicanti del film è una battaglia per la libertà e, filosoficamente, per capire quale sia il loro scopo in un mondo che li ha creati troppo “intelligenti” per non avere coscienza della propria fragilità e finitezza, in una rilettura tecnologica del mito di Prometeo, l’eroe greco che sfidò gli dei.
Nel corso degli anni, al cinema la tematica si espande ulteriormente verso campi più radicali, pessimisti, in cui il futuro dell’uomo viene descritto come uno scenario dominato e addirittura devastato dalla tecnologia. Se gli androidi di Blade Runner avevano in seno il germe della rivoluzione e della distruzione degli uomini, nel classico della fantascienza d’azione Terminator (1984) di James Cameron, le macchine sono riuscite nel loro obiettivo e hanno distrutto la nostra società. In questo film si immagina un mondo in cui l’intelligenza artificiale Skynet, raggiunta l’autocoscienza, ha provocato una guerra nucleare di scala mondiale con lo scopo di distruggere il genere umano, un conflitto che ha reso la Terra un luogo inospitale e in cui i pochi umani rimasti combattono contro le macchine. Una visione estremamente pessimista della tecnologia del futuro, ma che rimane comunque su un piano pragmatico da un punto di vista narrativo, raccontando il conflitto armato tra due “razze”.
Matrix (1999) delle sorelle Wachowski, uscito in un periodo in cui ormai Internet e le tecnologie di simulazione 3D erano diventate la realtà, dipinge uno scenario se possibile ancora più oscuro: il mondo come lo conosciamo è stato conquistato dalle macchine, che hanno poi assoggettato gli umani, li hanno schiavizzati, e da secoli li illudono attraverso una simulazione impiantata nel loro cervello (il Matrix del titolo) del fatto che stiano vivendo una vita normale nella loro attuale società, quando invece sono dormienti, e tenuti in vita dalle macchine solo per essere utilizzati come fonti di nutrimento bioelettrico. Il mondo in cui vive l’umanità nel film è una neuro-simulazione ricostruita, un luogo in cui siamo convinti di vivere, respirare, mangiare, mentre la verità è che non abbiamo mai realmente vissuto. Al riguardo di questo film, è interessante notare come alcuni studiosi, posti di fronte alla questione, non abbiano negato la prossimità di uno scenario del genere; secondo molti, di fatto l’umanità, interconnessa tra vari livelli di reti e di simulazioni virtuali, sta già vivendo in un metaverso: una realtà virtuale condivisa tramite internet in cui il nostro ruolo è rappresentato da un avatar che fa le nostre veci. Se esiste già una realtà simile, non è così lontano il momento (o forse, come accade nel film, è già arrivato) in cui tutti ci sposteremo cerebralmente a vivere su un piano virtuale della realtà, e di fatto quella stessa virtualità si trasformerà nella nostra realtà.
Esempio di film che mostra in maniera chiara come potrebbe essere il nostro mondo se esso fosse già un metaverso, è Ready Player One (2018) di Steven Spielberg, ambientato in uno scenario in cui il sovrappopolamento e l’inquinamento della Terra ha costretto i suoi abitanti a rifugiarsi in mondi virtuali, e il protagonista vive la sua avventura immerso all’interno di un mondo parallelo accessibile attraverso un macchinario neuro-sensoriale chiamato OASIS.
Il filosofo svedese Nick Bostrom, uno dei teorici del metaverso, nel suo testo Superintelligenza (2018) arriva ad affermare che se già l’umanità è riuscita in un qualche modo a creare dei piani virtuali di realtà dove poter simulare vite e addirittura interi universi, niente può smentire la teoria che, a livello probabilistico, una civiltà più avanzata della nostra sia già riuscita a creare una realtà simulata in cui tutti noi viviamo; una visione dell’esistenza tra l’altro vicina ad alcuni concetti della filosofia classica, come il mito della Caverna di Platone, o della spiritualità induista, in cui è avanzata la teoria della realtà come proiezione della mente.
Non tutta la fantascienza, tuttavia, è fatta di voli pindarici e mondo così lontani dalla nostra realtà per come la conosciamo. Negli ultimi anni, anche dopo le domande sollevate dalla saga di Matrix, è fiorito un vero e proprio filone cinematografico che cerca si analizzare nel dettaglio il complesso rapporto tra uomo e intelligenza artificiale, non solo dal punto di vista conflittuale, ma anche emotivo, con risultati spesso davvero interessanti.
Già nel 2001, Steven Spielberg ha affrontato questo tema nel film A.I. – Intelligenza Artificiale (2001), da un’idea di Stanley Kubrick, e tratto da un romanzo di Brian Aldiss. La pellicola, ambientata nella Terra del 2125, inabitabile a causa dei cambiamenti climatici, racconta la storia di una famiglia che decide di adottare il prototipo di un bambino robot e verificare se davvero esso possa essere un’alternativa valida nel rapporto figlio-genitore, in un mondo sempre più difficile da abitare per la futura razza umana. Il film mantiene irrisolto e conflittuale il rapporto emotivo tra uomo e macchina, paragonando la condizione di David, il piccolo robot, a quella di Pinocchio, il burattino di legno che vorrebbe a tutti i costi essere un bambino vero.
Nel film Her (2013) Spike Jonze si chiede invece in che modo potrebbe modificarsi la società umana se le intelligenze artificiali avessero la capacità di entrare nelle nostre vite passando per la sfera dell’intimità e delle relazioni amorose, campo in cui si dà per scontato l’interazione e il coinvolgimento fisico tra due esseri umani. Già da tempo, attraverso la diffusione di siti internet e di app dedite alla combinazione di incontri, come Tinder o Grindr, la tecnologia ha favorito la conoscenza tra persone lontane col fine di creare delle relazioni, ma nel film Spike Jonze immagina, senza portare lo scenario in un campo troppo lontano dal reale, come possa nascere una relazione tra un essere umano e un A.I., sviluppata e allo stesso consumata attraverso l’utilizzo di “intermediari” umani, in uno scenario in cui l’amore platonico per una donna può essere facilmente sovrapposto a quello per un personaggio virtuale, in termini di trasporto emotivo e affettivo.
Una tematica simile a quella sviluppata spesso da Andrew Niccol, regista e sceneggiatore americano noto soprattutto per aver scritto il film The Truman Show (1998), satira grottesca sull’utilizzo dei mezzi di comunicazione, e della loro pervasività nella vita di tutti i giorni. Nel film S1mone (2001) Niccol racconta la relazione virtuale tra un regista e un’attrice che è in realtà una simulazione esistente al computer, nata per offrire un’ottima prova attoriale e piacere al grande pubblico. Inevitabilmente il regista interpretato da Al Pacino, rimane attratto dalla sua stessa creazione e dalla fascinazione che essa ha provocato nel pubblico di tutto il mondo, mostrando sottilmente l’influenza che una tecnologia di intelligenza artificiale, sotto qualsiasi forma, può avere sulla collettività. Un modo delicato di raccontare questo tema, in cui l’idea dell’onnipresenza della tecnologia si mischia a quella della volubilità dei sentimenti.
Tema che viene ripreso in maniera ancora più complessa, e stavolta portato alle estreme conseguenze nel film Ex Machina (2015) di Alex Garland, in cui l’infatuazione di un uomo per una macchina sarà poi la causa della sua rovina. L’androide del film è la bella Ava (Alicia Vikander), una intelligenza artificiale super avanzata creata e tenuta segreta al mondo da uno scienziato al solo scopo di studiare le reazioni umane che si sviluppano all’interno di un individuo cibernetico, nelle sue sfumature più sconosciute. Il progressivo avanzamento di uno stato emotivo all’interno del cyborg Ava, porta il giovane protagonista Caleb ad infatuarsi della sua “persona” e ad aiutarla a liberarsi: tutto un piano ordito in realtà da Ava per poter vivere indipendente come un’umana in società e fuggire dalla propria prigionia da robot.
Una storia antica come il mondo, quella della creatura frutto della tecnologia che sfugge al suo creatore, la storia dell’uomo che gioca a fare dio, una storia che può ricordarci quella del mostro di Frankenstein (o il moderno Prometeo, come recitava il sottotitolo ai tempi dell’uscita dell’opera), nella sua accezione più pessimista: una vita costretta a esistere per il volere di un dio egoista, alla continua e disperata ricerca di un senso; o quella di Pinocchio, come abbiamo accennato prima, nella sua accezione più giocosa, di una vita che, venuta dal nulla tramite l’intervento umano, si getta e si perde subito nel fitto magma dell’umanità, vivendone le esperienze e ibridandosi con essa.
Un riferimento, quello al Pinocchio della tradizione italiana, che è stato ripreso anche nel battage pubblicitario del cine-comic del 2015 Avengers: Age of Ultron, di Joss Whedon, film in cui viene introdotto nella saga Marvel il famoso villain Ultron, una potente intelligenza artificiale creata dal superscienziato Tony Stark per creare una rete tecnologica di difesa militare globale. La creazione, tuttavia, gli si rivolta subito contro quando l’automa capisce come acquisire un corpo fisico e si convince che l’unico modo per proteggere la Terra dai conflitti sia distruggere il genere umano, trasformandosi dunque da macchina di difesa a potenza sterminatrice.
Una tematica spesso ricorrente nel cinema e nella letteratura di fantascienza, come abbiamo visto: la piccola intuizione malevola di HAL 9000 di liberarsi dei suoi padroni, negli anni, nel cinema e nella letteratura, si è trasformata, in un effetto a valanga, nella rappresentazione di una vera e propria guerra sanguinaria tra uomini e macchine; sintomo che l’uomo non si è ancora davvero abituato, o non si vuole abituare, all’idea di un mondo in cui vivrà, inevitabilmente, a strettissimo contatto conla tecnologia.