Samuele Ripani, classe 2001, è un giovane fotografo originario di Martinsicuro (TE), ora trasferitosi a Roma per proseguire i suoi studi presso l’Accademia di Belle Arti, corso di Fotografia e Video. Iniziamo allora una chiacchierata (“Sì, però aspetta sono in imbarazzo, non è che potremmo parlare ancora un po’ d’altro?”), anzi una lunga chiacchierata su di lui e i suoi progetti. Al centro, ovviamente, l’arte della fotografia (“Ma Gio, la tua reflex rimettiamola in uso dai che ti insegno di nuovo!”).
La riprenderei volentieri in mano, ma il mio problema non è tanto la tecnica (di base) quanto il rapporto con la fotografia stessa. Mi spiego. Mi sento nudo io, che pure sarei dall’altra parte dell’obiettivo… Non riesco ad essere a mio agio.
“Per me invece ha funzionato all’inverso. Potrei quasi osare dicendoti che la fotografia è per me terapeutica. Ora non ho problemi a confessarti, nonostante apparentemente non sembri, che sono un introverso-timido di quelli potenti. Mi è sempre piaciuto conoscere gente, ma allo stesso tempo la tenevo a distanza di sicurezza. Potevo sembrare talvolta pure aggressivo in passato, ma era solo per mettere una barriera fra me e gli altri. La macchina fotografica mi ha dato modo di farmi vedere dagli altri, senza (o comunque con meno) paura. La fotografia è stata per me una svolta, i miei scatti sono il mio specchio: vedrai quando sono arrabbiato, annoiato, preso a male o anche solo quando voglio giocare. Mi ha dato una scusa (una sorta di scudo) per avvicinarmi agli altri, per conoscere e farmi conoscere. Mi capita che mi fermino per strada per dirmi: ‘Ah, ma tu sei quello che ha fatto le foto a…’. Non mi sento più anonimo”.
Sto scorrendo il tuo profilo Instagram e noto che sono quasi soltanto ragazze.
“Noti molto bene. Riesco a trovare maggiore intesa con una ragazza, una maggiore sintonia. Non è una questione di bella ragazza o meno. Il sesso femminile si presta meglio a quello che voglio raccontare. L’indole maschile, tendenzialmente, rifugge la fragilità che voglio rappresentare”.
Ma insomma dopo qualche foto me la scatti? Lo so, sono un ragazzo (usiamo il termine per farmi sentire giovane), però…
“Ho portato appositamente la mia macchina fotografica [la prende e inizia a scattare, ndr]. Sai che hai gli stessi occhi di una ragazza con cui son venuti dei lavori davvero ottimi!”.
Lo prendo per un complimento, riprendiamo dopo che sennò sono io a imbarazzarmi. Tornando a noi, parlavi di fragilità.
“Io ritraggo un’altra persona, ovvio. Ma ritraggo me stesso. Guarda gli occhi di molte delle fotografate, come sono? Azzurri come i miei. Ritraggo persone che scelgo, perché mi dicono qualcosa (anche di me). Per farti capire meglio, durante il lockdown ero solo in una città senza nessuno altro. Ho così sperimentato per la primissima volta l’autoritratto. Una prima assoluta perché io sono sempre negli scatti sfocato, tagliato fuori dall’inquadratura, coperto in qualche modo. Questo perché non mi voglio molto bene, sia fisicamente sia caratterialmente”.
Facciamo un passo indietro. Come (e quando) hai iniziato a scattare?
Si tratta di una passione che mi ha trasmesso mio padre (che prima che a me, l’ha trasmessa a mia sorella). Lui scattava in analogico, ovviamente, e infatti sulla mensolina nella stanza in cui dormo ci sono tutti i cimeli di quel mondo fatto di reagenti, provette e ovviamente vecchie macchine fotografiche a rullino. Io, però, ho iniziato direttamente con le digitali e relativamente pochi anni fa. Questo perché avendo fatto per nove anni nuoto agonistico, quando avevo tempo non avevo voglia e quando avevo voglia non avevo tempo. Aggiungici lo studio ed ecco che rimaneva sì e no una domenica al mese in cui andavamo a scattare”.
E poi che è successo?
Ho messo da parte l’agonismo, perché essenzialmente non mi trovavo troppo bene in quell’ambiente, e ho ridimensionato il tempo dello studio. Ovviamente con mio padre partivamo solo quando gli avevo assicurato (mentendo) che avevo terminato i compiti. In quello che era ancora un gioco, ho iniziato a fotografare dapprima i paesaggi ed erano perlopiù foto bruciate, sottoesposte, mi scordavo di aver lasciato il tappo…. Via via dai paesaggi e dagli ambienti presi così com’erano sono passato a qualcosa di più studiato (nel frattempo mi sono anche parecchio documentato). Qualcosa che mi raccontasse di più. Fino a che, quattro anni fa, mi dico: ‘Voglio provare a fotografare persone’”.
Chi hai iniziato a ritrarre?
“Con la mia Nikon D2100 (e uno scassatissimo obiettivo 18-55 mm) ho iniziato dai miei migliori amici, molto classicamente. Dato anche il mio carattere. E poi via via… ora sono felice di non venire semplicemente considerato un fotografo generico ma un ritrattista: che qualcuno si voglia far ritrarre da me, per me rimane straordinario, ancora oggi!”.
Come sei riuscito a diventare famoso?
“E smettila Gio… Magari lo fossi! Comunque se intendi quel poco di notorietà che ho, beh… Sono i social! A un certo punto un mio amico mi fa: ‘Ma perché non usi un profilo Instagram per provare a mostrare i tuoi lavori?’. Io l’ho preso per pazzo, a chi mai avrei fatto vedere le mie orribili foto… Però poi lui mi ha convinto: ‘Male che va non ti seguirà nessuno’. Un anno dopo ho finalmente seguito il suo consiglio. La scintilla è poi diventata incendio, postavo dalle tre alle quattro foto al giorno. Ora forse una al mese”.
Come mai ora meno?
“Sai, forse avrai capito che sono molto autocritico e non mi accontento mai. Per una foto che pubblico ce ne sono dietro 300 che restano solo mie. Su Instagram avevo oltre 400 post e ora ne ho una trentina: le foto più riuscite, non totalmente certo. Se dovessi definire la mia fotografia, infatti, direi che è incompleta. Non è un caso che io lavori le mie foto sempre il giorno dopo che le ho scattate. Una volta che è passata l’euforia del post-scatto. Non dico che siano delle pessime foto (altrimenti avrei cambiato settore), semplicemente c’è sempre qualcosa che secondo me manca. E infatti sono passato dall’avere uno stile, che mi ha per un po’ caratterizzato, dai tratti molto forti, ombre marcate, colori particolari, a uno con colori più tenui, desaturati. Ora mi piace di più, ma non posso certo escludere che in futuro non ritorni a cose scure e al buio. Rimango alla ricerca della completezza che mi manca”.
Di recente ho notato che sei attivo anche su Tik Tok!
“Esatto. Non è una mia scelta. O meglio lo è, ma è di fatto obbligata. Mi spiego: io non bramo la notorietà sui social. Io fotografo per me. Perché è il mio modo di esperire il mondo. I social sono però ormai imprescindibili per vivere di fotografia. E quindi eccomi. Ma attenzione, non troverai mai una mia storia in cui chiedo: ‘Metti like, condividi per dimostrare che apprezzi il mio lavoro’. Sono su un altro pianeta rispetto a questo (e della tua opinione non mi importa proprio nulla! Ovviamente scherzo, in parte…). Se non dovessi mantenermi con la fotografia, non avrei social (non li ho citati ma ho anche i classici specifici per fotografi). Ma ce lo metti il link al mio profilo Tik Tok?”
In realtà non mi ha chiesto di mettercelo, ma lo faccio comunque: eccolo.
“Volevo ringraziare solo i miei genitori e mia sorella che mi hanno lanciato, stimolato e sostenuto. E ovviamente i miei amici più cari, che mi sono stati sempre a fianco (anche perché altrimenti le foto per i loro profili Instagram chi le faceva?). Meno forte il sostegno dei compagni del nuoto, ovviamente, d’altronde questa era un qualcosa di alternativo a quel mondo… Devo dire poi che molti conoscenti mi scrivevano su Instagram per prendermi in giro, quando avevo appena iniziato. Ora invece…”.
Benissimo per i ringraziamenti, però non abbiamo mica finito. Mi devi parlare di Roma e magari.. del futuro!
“Te lo confesso subito: a Roma mi sento stretto. Sembrerà paradossale ma la sento grande, troppo grande per me e non riesco a muovermici. Più specificamente, tutto è molto più incentrato sul lavoro. Io però voglio sì vivere di fotografia, ma non riesco a vederla ‘solo’ come un lavoro. Ho scattato a modelle, modelli, cantanti, ma cerco sempre di divertirmi. Quando si scatta sono serio e professionale. Sto nel mio mondo e guai a disturbarmi. Ma tutto il contorno è fatto di battute, uscite insieme, chiacchiere… Lì invece tutto questo non c’è. Ed è un bel problema perché questa freddezza congela tutto quello che io potrei tirare fuori nel fotografare qualcuno. Quella costruzione di storie, dietro alle persone che sto ritraendo”.
Un brevissimo passo indietro, prima dell’Accademia di Belle Arti hai seguito altre formazioni?
“Dopo le basi che mi ha dato mio padre, mia sorella mi ha buttato in un corso base ma… essenzialmente è stato inutile, sapevo già tutto. Successivamente ho seguito un corso avanzato, che mi ha aiutato nella tecnica in fase di scatto e sotto pressione”.
Quindi Roma.
“Grazie al mio portfolio di foto paesaggistiche e ritrattistiche, anche se non so come… Adesso ho finito il primo anno, ma sui video sto patendo perché anche i miei insegnanti non fanno che dirmi che si vede che li ha fatti un fotografo: riprese statiche, pochi movimenti, luci effettive studiate ma povere (il video non è una foto, c’è bisogno di roba più ricca). Insomma devo approfondirlo”.
Come ti trovi in quell’ambiente?
“Molto, molto meglio di quanto potessi immaginare. Temevo la concorrenza, la tensione e la rivalità che, ad esempio, trovo nel settore qui da noi. Invece no, lì ho trovato un ambiente particolarmente favorevole. Ognuno di noi riconosce di avere stili diversi, idee diverse sulla fotografia, e proprio per questo si cerca di aiutarsi a vicenda sia proponendo le proprie idee in modo che ognuno poi possa interpretarle a suo modo sia di imparare proprio dall’altro”.
Rimarrai a Roma?
“No, no. Come hai capito me ne andrò, ma non so dove. Sono curioso, girerò alla ricerca del luogo adatto”.
Quali sono le tue fonti d’ispirazione?
“Ecco, per dirti. Magari mi colpisce una foto che ho visto occasionalmente, di cui mi piace il gioco di luci e quindi poi decido di personalizzarlo. Sono spunti. Per fare foto che ritengo mie (fare foto lo faccio in continuazione) devo sentirmi ricettivo e non succede sempre, deve esserci qualcosa di negativo dentro di me: solo allora mi metto a pensare alle fotografie. Se poi vuoi dei nomi. Fra i pittori Hopper e fra i fotografi Francesca Woodman. In lei ritrovo in particolare quell’odio verso sé stessi. Ho ritrovato quel qualcosa che vedevo nei miei autoritratti”.
Hai mostre in programma?
“Beh, sai mi piacerebbe. Mi sto organizzando e presto ho intenzione di realizzarne”.
Non sarebbe male che un giovane talento della nostra zona esponesse fra Ascoli e San Benedetto.
“Magari!”.
Ultima cosa, volevo chiederti della fotografia analogica. Hai detto di aver iniziato dalla digitale, ma poi hai mai sperimentato?
“Sì, assolutamente sì. Inizialmente con una Zenith russa. Io avevo paura, anche perché mio padre mi diceva continuamente: ‘Ora non puoi cancellare, i rullini e lo sviluppo costano’. Col digitale l’approccio è più freddo, poi c’è Photoshop… Con l’analogico tieni di più alla realizzazione, adoperi più tempo per ogni singolo scatto. E poi c’è la magia della carta su cui prende forma l’immagine sotto i tuoi occhi…”.
Direi che abbiamo finito.
“Senti Gio, parliamo da troppo tempo e fanno 40 gradi, ti va un cocomero?”
Oddio, in treno non so se mi sarebbe comodo.
“Da su.. Intendo mangiarne una fetta, così ti faccio qualche altra foto”.