Elena Pulcini, un ricordo della grande filosofa

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Qualche settimana fa è venuta a mancare, vittima del Covid, una delle filosofe di maggior rilievo e sensibilità del nostro Paese, da lunghi anni titolare della cattedra di Filosofia sociale all’università di Firenze dopo alcuni periodi a Parigi quale ricercatrice. La ragione per la quale voglio ricordare qui Elena Pulcini è almeno duplice, nel senso che all’indubitabile valore delle sue riflessioni particolarmente preziose in questa nostra fase, raccolte in numerose pubblicazioni tra le quali La cura del mondo. Paura e responsabilità in età globale e L’individuo senza passioni, di cui sono grato lettore, si aggiunge un ricordo personale abbastanza minimale ma per me di notevole persistenza, come tutti i ricordi legati agli anni di formazione. In questo caso, in particolare, si trattava del mio primo anno di liceo e dell’ultimo per lei, circostanza questa che – considerato il peso che una differenza di quattro o cinque anni riveste a quell’età – favoriva una soggezione pressoché schiacciante per quanto mi riguardava. In più c’era quell’attrazione che “le ragazze più grandi” suscitavano nei debuttanti sbarbati come me, incrementando quel romanticismo scolastico che è il sugo di una magnifica canzone dedicata agli ultimi giorni di scuola da Franco Battiato, Stranizza d’amuri.

Si sa che poi, con gli anni, differenze d’età di questa consistenza si riducono molto e ritrovarsi, se si supera la barriera asettica delle convenzioni, può riservare sorprese umanamente gratificanti. Nel mio caso non c’è stata occasione fisica ma una doppia occasione indiretta: la lettura dei suoi libri e dei suoi interventi innanzi tutto, e poi qualche anno fa l’occasione dell’anniversario di fondazione del liceo classico di San Benedetto, quando Tito Pasqualetti, a lungo Preside, ci chiese un ricordo di quegli anni e, nel suo caso, risultò godibile e da me del tutto condiviso quel panico iniziale per la paura di ritrovarsi estranei, formali, retorici e magari cadenti contraddetto però, per fortuna, dalla comune disponibilità a ripensare emotivamente ma anche criticamente a quegli anni (per la cronaca, l’anno del mio ingresso al liceo era il fatidico ’68).

Mi è capitato di ripensare e rileggere (nella pubblicazione dedicata ai 50 annni del liceo sambenedettese) quell’intervento di Elena in queste settimane nel corso delle quali, da parte di colleghi, amici, studiosi, è stato ricordato il suo impegno scientifico e nondimeno umano proprio nell’elaborare nel corso degli anni riflessioni sulla necessaria collaborazione tra senso critico e sfera emozionale.

Penso a L’individuo senza passioni, libro nel quale Elena Pulcini indaga la relazione tra le forme dell’individualismo contemporaneo e la perdita dei legami sociali, e distingue opportunamente i fenomeni di narcisismo dilagante da quella ricerca di autenticità e cura di sé che è invece fondamentale per riscoprire poi reciprocità e scambio sociale. Ed è proprio cura, una delle parole-chiavi per questo tempo, il concetto al centro degli ultimi scritti di Pulcini: nel libro La cura del mondo al significato di apprensione e sollecitudine si affianca quello di responsabilità, e l’autrice ci ricorda che la cura si oppone alla malattia ma anche all’indifferenza e alla sciatteria. All’incuria.

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